NON CI SI PUO’ PIU’ NEPPURE FIDARE DEI CARTONI ANIMATI: RIFLESSIONI A MARGINE DEL CASO HELLO KITTY OVVERO L’ENNESIMO TENTATIVO DI RESTRINGERE LE IMPORTAZIONI PARALLELE ALL’INTERNO DEL MERCATO UE

  1. I fatti

Il 9 luglio scorso La Commissione ha annunciato di aver comminato una sanzione di 6,2 milioni di Euro alla giapponese Sanrio, titolare dei diritti di proprietà intellettuale sul personaggio dei cartoni animati Hello Kitty, una gattina antropomorfa.

Sanrio ha sfruttato il successo di Hello Kitty attraverso il merchandising, tanto che, a detta della stessa Sanrio, più di 50.000 prodotti di vario genere (tazze, borse, articoli di cancelleria o giocattoli) sono commercializzati in 130 nazioni utilizzando il marchio “Hello Kitty”, per l’appunto licenziato dalla Sanrio.

Le ragioni della sanzione sono dovute al fatto che durante l’indagine la Commissione ha accertato che i contratti non esclusivi di licence merchandising della Sanrio contenevano una serie di clausole che (i) vietavano ai singoli licenziatari vendite al di fuori del territorio loro assegnato, (ii) l’obbligo di reindirizzare a Sanrio gli ordini di vendita non provenienti da tale territorio e (iii) limitazioni relative alle lingue utilizzate sui prodotti di merchandising, il tutto accompagnato da periodici audit contabili  e dal mancato rinnovo del contratto  per i licenziatari che non rispettavano le disposizioni contrattuali in tema di territorio.

In estrema sintesi, è evidente che (a) le clausole contrattuali imposte dalla Sanrio ai suoi licenziatari costituiscono delle restrizioni fondamentali (hardcore restrictions) ai sensi dell’art.2.3. del Reg. (UE)  330/2010 in tema di accordi verticali[1] (“L’esenzione di cui al paragrafo 1 si applica agli accordi verticali contenenti disposizioni relative alla cessione all’acquirente o alluso da parte dell’acquirente di diritti di proprietà intellettuale, a condizione che tali disposizioni non costituiscano l’oggetto primario degli accordi e che esse siano direttamente collegate all’uso, alla vendita o alla rivendita di beni o servizi da parte dell’acquirente o dei suoi clienti….”), (b) tali disposizioni erano funzionali ad una strategia di merchandising volta a frammentare il “mercato unico” UE così da impedire le c.d. “importazioni parallele”, il che costituisce una violazione dell’art. 101.1. del TFUE – Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (“Sono incompatibili con il mercato interno e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno ed in particolare quelli consistenti nel ……. c) ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento; …”.).

In questa situazione del tutto comprensibile, e quasi inevitabile, che Sanrio abbia prontamente deciso di collaborare con la Commissione, ottenendo così una riduzione del 40% della sanzione (calcolata sulla base di quanto previsto dagli Orientamenti per il calcolo delle ammende inflitte in applicazione dell’articolo 23, paragrafo 2, lettera a), del regolamento (CE) n. 1/2003 del 2006).

Prima di passare alle “riflessioni a margine” è opportuno premettere che quello di Hello Kitty non è un caso isolato di sanzioni irrogate a multinazionali che hanno cercato di imporre delle restrizioni analoghe, tese a limitare o impedire le vendite transfrontaliere all’interno della UE (e su questo sito ho già dedicato alcuni post a casi verificatisi in passato). Tra i casi più recenti si possono menzionare Nike e AB InBev qui di seguito sintetizzati:

Nike: La decisione della Commissione che ha comminato alla Nike una ammenda di € 12,5 milioni è del 25 marzo 2019. Anche in questo caso le ragioni della sanzione poggiano sui comportamenti e sulle azioni adottate da Nike per impedire ai licenziatari di vendere prodotti di merchandising sotto licenza in altre nazioni appartenenti allo Spazio Economico Europeo (UE più Norvegia, Islanda e Liechtenstein). Le restrizioni imposte dalla Nike nella sostanza sono analoghe a quelle di Hello Kitty (divieto ai licenziatari di vendere al di fuori del mercato assegnato loro con conseguente minaccia di revocare la licenza nell’eventualità di una violazione di tale divieto, obbligo dei licenziatari di imporre a sublicenziatari e distributori analoghi obblighi).

AB InBev: La Commissione UE ha comminato il 13 Maggio scorso una sanzione di poco superiore a € 200 milioni alla Anheuser-Bush InBev NV/SA  (AB InBev), il più grande produttore mondiale di birra (quindi oltretutto un soggetto in posizione dominante ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 102 TFUE) per aver imposto delle restrizioni all’importazione in Belgio  dei marchi Stella Artois e Leffe dall’ Olanda, dove i due prodotti erano commercializzati a prezzi inferiori rispetto a quelli praticati in Belgio in conseguenza della maggior concorrenza presente su tali due mercati.

Le pratiche adottate da AB InBev e sanzionate dalla Commissione  includevano (i) l’eliminazione delle informazioni in francese dai prodotti venduti in Olanda, così da renderne più difficile la vendita in Belgio; (ii) la limitazione delle quantità di prodotti venduti ai suoi distributori olandesi così da consentir loro di soddisfare soltanto le richieste del mercato olandese, (iii) il rifiuto di vendere prodotti a un distributore belga se non si fosse impegnato a non importare le birre AB InBev dall’Olanda, e, last but not least, (iv) l’aver condizionato la partecipazione di un distributore ad una iniziativa promozionale promossa dalla AB InBev al previo impegno a non far accedere a tale promozione i clienti del distributore residenti in Belgio.

  1. “Riflessioni a margine”

Credo che dall’esame dei casi sopra illustrati sorgano spontanee alcune domande. La prima e probabilmente la più ovvia riguarda le ragioni che spingono società quali Sanrio, Nike, e AB InBev (ma sono solo gli ultimi casi sanzionati dalla Commissione, perché la lista dei casi verificatisi è ben più lunga e ha coinvolte anche imprese di piccole o medie dimensioni, quantomeno rispetto a Sanrio, Nike, e AB InBev) ad adottare strategie commerciali e soluzioni contrattuali che configurano una violazione del diritto della concorrenza all’interno dell’Unione Europea. Personalmente mi sono dato due risposte che propongo qui di seguito:

(a) Prima ipotesi: i manager che organizzano le strategie aziendali dell’impresa e poi le gestiscono nella pratica sono del tutto ignari delle limitazioni imposte dal diritto della concorrenza. Inevitabile interrogativo: considerato che le strategie si traducono in contratti, presumibilmente redatti da avvocati, dobbiamo ritenere che anche gli avvocati (italiani e non) non abbiano una adeguata conoscenza delle normative antitrust o che, piuttosto, nel redigere i contratti?

(b) Seconda ipotesi: i manager consciamente mettono in essere delle restrizioni vietate ai sensi dell’art. 101.1 TFUE al fine di massimizzare i profitti affidandosi alla speranza che, almeno nel breve-medio periodo, la Commissione UE o una qualche Autorità della concorrenza nazionale non venga a conoscenza di tali restrizioni. Teoricamente una simile scelta potrebbe essere adottata sulla base di una valutazione rischi – benefici, comparando a priori i profitti che potrebbero derivare dal “compartimentare” i singoli mercati UE, ove praticare prezzi diversi in funzione della concorrenza esistente sul singolo mercato, con il prevedibile ammontare delle eventuali sanzioni che potrebbero essere applicate. Solo teoricamente però, in quanto una valutazione costi benefici nella pratica mi sembra pressoché impossibile. Una spiegazione più plausibile potrebbe forse risiedere nei “bonus di fine anno” che le imprese destinano ai manager che raggiungono il budget (finché dura e nessuno se ne accorge ….).

Quale conclusione trarre e quali suggerimenti per gli avvocati, in-house e non, che assistono le imprese? Oggi siamo ormai abituati a gestire Modelli Organizzativi, Procedure, Sostenibilità, GDPR, Sicurezza. Dovremmo anche abituarci a considerare il rispetto della normativa antitrust come una parte della Corporate Governance dell’impresa.

Ciò potrebbe significare, per esempio, predisporre delle “Linee Guida per il rispetto del diritto della Concorrenza”, modulate sulle attività e sullo specifico settore ove opera l’impresa, da distribuire ai manager aziendali[2].  Di per sé ciò non assicurerebbe che qualche manager non si comporti altrimenti, ma quantomeno eliminerebbe il facile alibi costituito dalla asserita non conoscenza del possibile impatto del diritto della concorrenza sulle attività, e sui contratti, adottati dall’impresa.

Marco Bianchi © riproduzione riservata – Luglio 2019

[1] Si vedano i post che ho già pubblicato sul sito (“REG. (UE) 330/10 – CONTRATTI DI CONCESSIONE UE E VENDITE VIA INTERNET FUORI DALLA ZONA ASSEGNATA AL CONCESSIONARIO – PRIMA E SECONDA PARTE) e, più in dettaglio, il Capitolo V (“Contratti di distribuzione e diritto della concorrenza dell’Unione Europea”) del mio libro “Contratti internazionali di Distribuzione – Commercial Agency Agreements and Distribution Agreements” che ho appena pubblicato con Giuffrè Francis Lefebvre.

[2] Nel 1992, agli inizi della mia “precedente vita” di giurista d’impresa, avevo predisposto una “Guida Pratica alle normative della Comunità Economica Europea in tema di concorrenza” da distribuire ai manager dell’azienda. Non se ne fece nulla in quanto l’Ufficio Legale della Capogruppo non lo ritenne opportuno.

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