IL (NUOVO) LEGAL DESIGN (SENZA DIMENTICARE I PACISCENTI …) – BREVI CONSIDERAZIONI DI UN PRATICO
Negli ultimi anni chi esercita la professione legale, avvocato o giurista d’impresa che sia, ha assistito al periodico emergere di temi che, per un periodo più o meno lungo, sui social, e non solo, sono sembrati dominare, o dover dominare, l’interesse dei giuristi: per citarne alcuni tra i più recenti pensiamo alla blockchain, agli smart contracts, all’informatica giuridica, alla digital law, tutti temi che nel momento di massima “notorietà” hanno comportato il proliferare di post sui social, articoli, tesi di laurea, conferenze, convegni, tutti dedicati all’argomento di volta in volta sulla cresta dell’onda (per non parlare poi del relativo fiorire di consulenti accreditati…). Adesso è il momento del (nuovo) legal design.
Qui di seguito ho provato a riassumere qui alcune mie considerazioni, con l’avvertenza che si tratta dei commenti di un pratico del diritto (un practitioner, come direbbero gli inglesi) e quindi sono formulate sulla base della mia personale esperienza professionale, che è quella di un giurista che ha sempre operato nell’ambito della consulenza alle imprese, con particolare riferimento ai processi di internazionalizzazione ed ai contratti B2B, nazionali ed internazionali.
- Quale definizione per il (nuovo) legal design?
Tra le tante definizioni che possiamo trovare su internet, cercando di andare alla fonte (ovviamente il (nuovo) legal design è stato dapprima codificato negli U.S.A ……) inizio col riportare qui di seguito alcune considerazioni di una delle sue antesignane più famose, Margaret Hagan, direttore del Law School’ s Legal Design Lab dell’Università di Stanford (U.S.A.), che a mio modo di vedere riassumono i due “canoni” fondamentali del (nuovo) legal design.
- Il primo canone: “Legal Design is an innovation approach that means focusing on the humans within the legal system …. It means a priority on who the ‘users’ of the system are — whether it be people who are ‘lay’ outsiders trying to use it to solve problems, or the ‘professionals’ who work inside it. A legal design approach has us talk to these people, observe them, co-create with them, and test with them — so that we can make a system that actually solves problems, and does so in the most usable, useful, and engaging way possible…/ Il Legal Design è un approccio innovativo che si traduce nel focalizzarsi sulle persone che utilizzano il sistema legale…. Esso implica la necessità di considerare in maniera prioritaria chi siano gli “utilizzatori”, siano essi coloro che non vi appartengono ma vi ricorrono per risolvere un qualche problema, o i professionisti che operano all’interno del sistema. L’approccio proprio del Legal Design deve farci parlare con queste persone, osservarle, “creare” e verificare assieme a loro, così da poter creare un sistema che effettivamente risolva i problemi, e lo faccia nella maniera più utile e coinvolgente”[1].
- Il secondo canone: “We lawyers must learn to work on teams of interdisciplinary experts. Lawyers and other legal professionals may have strong expertise in the content of law, but …. must seek out other types of experts, who have the skill sets to properly scope the problem and stake out the path to resolution. The lawyer should certainly be on the interdisciplinary team, taking part in the design process and providing guidance on legal content and practices. But the lawyer must cede some (or much) of the design decision-making to professional designers, computer programmers, neuropsychologists, economists, educators, psychologists, human-computer interaction experts, and other specialists who have greater familiarity with designing products and services / Noi Avvocati dobbiamo imparare a lavorare in gruppi interdisciplinari di esperti con differenti professionalità. I giuristi possono avere una profonda conoscenza del diritto, ma …. devono coinvolgere altri tipi di professionalità che abbiano le capacità di analizzare il problema e tracciare il percorso per la sua risoluzione. Il giurista dovrebbe essere certamente far parte di un gruppo interdisciplinare, per prender parte al processo di progettazione (i.e. del documento giuridico) e fornire indicazioni sui contenuti e sulle pratiche strettamente giuridiche. Ma il giurista deve cedere alcune (o molte) delle decisioni relative alla strutturazione del documento a designers professionali, esperti informatici, neuropsicologi, economisti, psicologi, …e altri specialisti che abbiano una maggiore esperienza nella progettazione di prodotti o servizi.”.[2]
- Il primo canone del (nuovo) legal design: il focus sul destinatario del documento che il giurista si appresta a predisporre
Cercando di sintetizzare la definizione proposta da Margaret Hagan nel primo passo sopra riportato, e le altre definizioni, per molti versi analoghe, che possiamo trovare in rete e sui libri dedicati al legal design[3], è possibile trarre una prima conclusione, ovverosia che il (nuovo) legal design si focalizza sulla necessità di costruire documenti giuridici (leggi, atti, pareri, contratti) che siano immediatamente comprensibili per le persone a cui essi sono destinati e quindi possano essere uno strumento di comunicazione tra chi li redige e chi è destinato a riceverli, così da offrire ai destinatari un documento che essi possano facilmente comprendere ed utilizzare.
Per far ciò i giuristi dovrebbero coniugare forma e contenuto, sforzandosi non soltanto di creare un documento corretto da un punto di vista giuridico, ma anche di renderlo semplice ed immediatamente comprensibile per i lettori e per gli utilizzatori, il che peraltro comporta, per i contratti B2B, che il giurista si preoccupi di comprendere le implicazioni meramente imprenditoriali insite nel testo contrattuale che sta redigendo, addentrandosi anche al fuori del confortevole ambito giuridico che gli è familiare (confortevole per l’avvocato ma non necessariamente per i clienti che avvocati non sono).
Qui è utile fare un ulteriore riferimento a un articolo che Margaret Hagan ha scritto nel 2016 insieme a Helena Haapio[4], specificatamente dedicato alla redazione dei contratti, di cui ripropongo un passo qui sotto:
“When drafting contracts, the focus of lawyers is typically on content, language and legal concerns, rather than on how these are presented or how the documents are used…… The core of contract crafting, as we see it, is securing the business objectives and the performance that the parties expect, not just a contract. …. Business users tend to prefer usable, operationally efficient contracts that provide reasonable risk allocation at an acceptable cost. Traditionally, the focus of contract scholars and crafters has been on the needs of the legal users, such as courts and arbitrators. / Nel redigere i contratti di solito gli avvocati focalizzano la loro attenzione sul suo contenuto, sul linguaggio e sui problemi giuridici, piuttosto che su come essi sono presentati o sull’uso a cui essi sono destinati…. Nella costruzione del contratto, a nostro parere, il punto fondamentale non è solo il contratto ma è quello di assicurare il raggiungimento degli obiettivi di business e le prestazioni che le parti si attendono. …. I clienti business tendono a preferire contratti utilizzabili ed efficienti da un punto di vista operativo che consentano una ragionevole allocazione dei rischi a costi accettabili. Tradizionalmente, il focus degli studiosi del diritto e dei redattori dei contratti è stato concentrato sulle esigenze dei giuristi, quali giudici ed arbitri”.
Personalmente condivido appieno tali considerazioni, che per certi versi rispecchiano la mia convinzione, che ormai da tempo mi porto dietro nei miei scritti, secondo cui i contratti, (quantomeno quelli B2B), in funzione di come sono redatti, possono essere suddivisi in lawyers’ contract (il contratto, che si limita a registrare le obbligazioni giuridiche assunte da ognuna delle parti, redatto in funzione di una eventuale futura litigation) e il merchants’ contract (il contratto come uno degli strumenti per raggiungere gli obiettivi imprenditoriali, e da ultimo il profitto, che ognuno dei contraenti si attende all’atto della formalizzazione del rapporto contrattuale) [5].
Per “comunicare” con i destinatari del documento giuridico da essi redatto, i giuristi devono dunque sforzarsi di conoscere l’ambito in cui il cliente opera e i problemi o gli obiettivi che questi si auspica di risolvere o di raggiungere con l’aiuto del giurista e per il tramite del documento giuridico da questi redatto, così da fornire al cliente, per quanto possibile, uno strumento per risolvere i problemi e raggiungere gli obiettivi.
E dunque, qualora il destinatario dello scritto giuridico non sia un altro giurista, nel redigere un parere giuridico o una bozza contrattuale, non è possibile “chiudersi” dietro quello che il giurista già ben conosce, il diritto per l’appunto, limitandosi ad esplicitare diritti e obblighi giuridici. Ma è ancor peggio se il giurista per “nascondere” la mancata comprensione delle pratiche esigenze del cliente, o la personale ignoranza delle le peculiarità del settore merceologico ove il cliente opera, si nasconde dietro il tanto deprecato (dai clienti avveduti…) legalese.
Personalmente non so se e quanto sia utile per un giurista atteggiarsi a designer, ma è certo che il focus sui destinatari, e la conseguente necessità di comunicare in maniera semplice e immediatamente comprensibile per i destinatari della nostra “comunicazione giuridica”, rappresenta un punto essenziale e del tutto condivisibile del (nuovo) legal design, senza dimenticare un ulteriore corollario, non scontato almeno per molti giuristi italiani, relativo alla forma (mi verrebbe da dire “l’estetica”) del documento giuridico che predisponiamo che dovrebbe essere tale da assicurare la miglior “leggibilità” del documento da parte del nostro cliente, il quale, considerato che ci paga la parcella, dovrebbe essere messo in grado di apprezzare e comprendere con immediatezza i fatti, i ragionamenti e le soluzioni che gli sottoponiamo[6].
Se così inteso, il (nuovo) legal design rappresenta dunque uno strumento di cambiamento, o, meglio ancora, è la testimonianza della necessità di un cambiamento del tradizionale linguaggio dei giuristi, italiani e non solo, (cambiamento che però, come spiego nel successivo paragrafo 5, almeno a mio modo di vedere e già cominciato da tempo, seppur sommessamente, prima dell’avvento del (nuovo) legal design).
- Il linguaggio del diritto: una lingua tecnica o una lingua oscura? Gli avvocati come “sacerdoti” del diritto?
Nessuno mette in discussione il fatto che il diritto sia una lingua tecnica, ma questa non è certo una ragione perché il giurista la trasformi poi in una lingua oscura, piena di pseudo-tecnicismi[7], immediatamente comprensibili solo ad altri giuristi e non anche agli utilizzatori del documento giuridico, quale che esso sia.
Quasi inevitabile dare per scontato che nel momento in cui invece ciò avvenga, il giurista, più o meno consciamente, magari solo per comodità, finisca poi per adottare il linguaggio che istintivamente gli è più congeniale, quello tradizionalmente utilizzato dagli avvocati nei tribunali, e prima ancora appreso nelle università dove, in fin dei conti, gli interlocutori, apparentemente, sono solo altri giuristi, avvocati o giudici che siano, riproponendo tale linguaggio acriticamente anche fuori di tali ambiti (ammesso e non concesso che il legal design non possa e non debba invece entrare nei tribunali e nelle aule dell’università in tribunali).
E qui, per meglio illustrare il potenziale impatto del (nuovo) legal design entrano in campo i paciscenti citati nel titolo di questo mio contributo. Paciscenti è un termine mutuato dal latino pacisci “pattuire, fare un accordo”, e quindi i paciscenti null’altro sono se non quelli che in italiano siamo soliti definire le parti dell’accordo, o, ancor più semplicemente i contraenti.
Leggendo un qualche scritto giuridico, articolo o libro che fosse, mi è capitato in passato, e a volte mi capita tuttora, di imbattermi nei paciscenti, e ogni volta ammetto di provare un senso di fastidio, riconoscendo in tale termine un esempio di quei pseudo-tecnicismi stigmatizzati da Carofiglio (ma, sia chiaro paciscenti è solo un esempio, perché, a ben guardare, gli pseudo-tecnicismi sono tanti e continuano a prosperare nel linguaggio di troppi giuristi italiani).
E così il linguaggio del diritto si trasforma da lingua tecnica in lingua oscura, almeno per tutti i nostri clienti che giuristi normalmente non sono: “Caro Ingegnere, per rispondere alla sua domanda dobbiamo prima compulsare la documentazione e riflettere sulle comunicazioni in precedenza intercorse tra i paciscenti.”. Sembra di sentire il rimuginio nella testa dell’Ingegnere che siede davanti alla scrivania dell’avvocato: “Paciscente, chi era costui?”.
Perché utilizzare uno pseudo-tecnicismo, comprensibile solo al giurista e non i sostantivi “contraente” o “parte” immediatamente comprensibile a tutti, giuristi e non giuristi? Che cosa vogliono dimostrare i giuristi che utilizzano tali pseudo-tecnicismi. La loro “separatezza” rispetto alle pratiche preoccupazioni dei clienti o addirittura la loro superiorità culturale su chi giurista non è?
Ma perché trasformare il diritto in una lingua oscura? Qui mi permetto un’autocitazione di un passo dell’articolo del 2003 già citato in precedenza citato (nota 5): “Per molti versi credo che, in particolar modo nei paesi di civil law, ed in Italia in particolare, i giuristi abbiamo finito per considerare il contratto come un fatto esclusivamente giuridico, qualcosa di troppo serio, di troppo importante per lasciarlo nelle mani, o. in certi casi anche solo per condividerlo, con gli imprenditori e gli uomini che gestiscono il “business”. Così facendo i giuristi troppo spesso finiscono per attribuirsi, più o meno consapevolmente, un ruolo di interpreti esclusivi, quasi di “sacerdoti” del contratto …… quasi sempre l’operatore del diritto tende, più o meno consciamente, a ricercare le soluzioni al di fuori del contratto, alla ricerca di un sistema di norme capace di assicurare al giurista un ruolo privilegiato (e per certi versi più confortevole), ma per molti versi riduttivo, di mero “interprete” del diritto prima e più che della fattispecie imprenditoriale che è sottesa il contratto.”. Un approccio che è esattamente l’opposto da quello propugnato dal (nuovo) legal design.
- Il secondo canone del (nuovo) legal design: il design ovvero il rapporto tra avvocati, i designer, gli psicologi ….
Dopo aver cercato di sintetizzarne i meriti, mi sembra necessario accennare a quelli che, almeno a mio modo di vedere, sono i limiti del (nuovo) legal design e per farlo mi rifaccio nuovamente al pensiero di Margaret Hagan, e a quello che, per comodità, nel precedente paragrafo 1 ho definito il secondo canone del (nuovo) legal design.
Come detto è indubbio che il giurista per comunicare in maniera efficace debba essere capace di utilizzare un linguaggio chiaro ed un format user-friendly. Quando il cliente è un’impresa, ciò è possibile soltanto se il giurista, nel costruire il documento giuridico che il cliente gli ha richiesto, si preoccupa di comprendere appieno le dinamiche operative dei processi aziendali (industriali, commerciali, finanziari) ed è disponibile ad interagire con le altre professionalità che pure operano nell’impresa e con i linguaggi specifici di tali professionalità (che tuttavia dovrebbero essere disponibili a fare altrettanto o ….) e dunque condivido la prima parte del passo di Margaret Hagan in precedenza citato (“Noi Avvocati dobbiamo imparare a lavorare in gruppi di esperti con differenti professionalità.”).
Se riferita alla consulenza alle imprese e ai contratti B2B, però non condivido l’idea poi espressa nella seconda parte del testo di Margaret Hagan, secondo cui “il giurista deve cedere alcune (o molte) delle decisioni relative alla strutturazione del documento a designers professionali, esperti informatici, psicologi, economisti…e altri specialisti che abbiano una maggiore esperienza nella progettazione di prodotti o servizi”.
Davvero qualcuno pensa che per predisporre un Equity Joint Venture Agreement con un partner cinese o uno SPA – un Sale and Purchase Agreement per l’acquisizione della partecipazione di controllo di una società per azioni nell’Unione Europea, o ancora un Distribution Agreement redatto in accordo con il Reg. (UE) 330/2010 in tema di accordi verticali, il giurista, pur rispettando il “primo canone” del (nuovo) legal design, debba poi condividere la decisione di come strutturare il testo contrattuale con “designers professionali, esperti informatici, psicologi” (gli economisti e i finanziari quelli sì, ci sono e dovrebbero esserci in qualsiasi contratto che abbia un valore economico non banale per l’impresa)?
Ed ancora. Possiamo immaginare di scrivere una legal opinion a fumetti? Dipende da cosa si intende per legal opinion, e certamente, per cercare di fare un paragone, mi è capitato di rispondere ad un semplice quesito giuridico con una e-mail di poche righe. Avrei potuto trasformare la mia risposta in un fumetto? Probabilmente sì, ma ci avrei messo molto più tempo e la mia risposta a fumetti non avrebbe creato alcun reale valore aggiunto per il destinatario, non sarebbe cambiato alcunché vista la semplicità del quesito (e della risposta).
Non mi sembra dunque un caso che gli esempi di applicazione del (nuovo) legal design siano spesso riferiti alla (ri)strutturazione delle informative privacy piuttosto che alle procedure interne alle imprese o agli executive summary in power point, o molto più semplicemente ai contratti B2C (peraltro non tutti)[8].
- Alcune conclusioni sul (nuovo) legal design
Come il lettore avrà notato in questo scritto, quando ho fatto riferimento al legal design, l’ho sempre fatto precedere dall’aggettivo “nuovo” tra parentesi. Ciò in quanto il termine è sì nuovo, e nuova è pure la codificazione del suo significato, ma, almeno a mio parere, non è nuovo l’approccio da esso propugnato, perlomeno con riferimento al “primo canone” da esso dichiarato, quello della necessità per il giurista di redigere un testo giuridico comprensibile per il destinatario del documento.
Nel mondo anglo-sassone, ed in particolare in Inghilterra e U.S.A., ma potremmo anche citare documenti analoghi predisposti dalla Commissione UE, ormai da molti anni esistono iniziative volte a promuovere l’uso del “plain english” volto a favorire la comprensibilità dei testi giuridici (“No pa-ci-scen-ti, please!), e può anche essere utile riportare qui un passo di un giudice della Corte Suprema inglese che ho già citato nel mio “Manuale dei contratti internazionali”: “Un gran numero di persone che non sono state coinvolte nella redazione del contratto, devono svolgere la loro attività nel rispetto di quanto da esso disposto. Queste persone devono capire che cosa è richiesto dal contratto e che cosa è permesso dal contratto. Per far ciò, queste persone non devono ricorrere all’etica o alla metafisica. Non possono neppure telefonare ai loro avvocati in ogni momento. Esse guardano a quello che c’è scritto nero su bianco nel contratto». [9].
Guardando alla pratica di casa nostra e con espresso riferimento a contratti e pareri legali, mi sembra che da anni molti giuristi d’impresa ed avvocati che forniscono quotidianamente consulenza alle imprese siano ormai ben consapevoli di dover comunicare con un linguaggio che renda ben comprensibili l’impatto delle disposizioni di legge applicabili al caso concreto e le conseguenti indicazioni da essi fornite ai clienti e per cui i giuristi avveduti possano dunque essere considerati dei legal designer ante litteram.
In tal senso, e con riferimento ai contratti, internazionali e non, mi viene poi in mente il fenomeno della proceduralizzazione dei contratti, constatato da Marcel Fontaine e Filip De Ly nel 2003[10], intendendosi con tale termine fare riferimento alla pratica invalsa nei contratti internazionali di esplicitare le attività operative che i contraenti devono svolgere per dar corso agli obblighi contrattualmente da ognuno di essi assunti, o, di nuovo con una autocitazione di un passo di un vecchio libro di cui sono co-autore, ove per la prima volta identificavo le caratteristiche di un contratto internazionale B2B, e cioè un contratto completo, capace di contemperare le esigenze di entrambi i contraenti e, last but not least, chiaro e comprensibile per chi lo debba utilizzare (“un testo … chiaro e comprensibile….per tutti coloro che siano chiamati …a dare materiale esecuzione al contratto….”.)[11].
Come già accennato l’idea che il giurista debba coinvolgere nella strutturazione di un qualsivoglia documento giuridico anche “designers professionali, esperti informatici, psicologi ecc.”, rappresenta l’ulteriore elemento di novità del (nuovo) legal design (“il secondo canone”), che peraltro mi sembra inapplicabile nei documenti giuridici, contratti o pareri, che gli avvocati e i giuristi d’impresa predispongono per le imprese.
E dunque, scartata a priori l’idea di strutturare un joint venture agreement con una controparte cinese alla stregua di un elemento di design ed accertato che gli avvocati che assistono le imprese, quantomeno quelli più avveduti, già costruiscono contratti e pareri utilizzando un linguaggio privo di pseudo-tecnicismi giuridici e facilmente comprensibile alla generalità dei clienti non giuristi, dovremmo forse concludere che il legal design non merita di essere qualificato come “nuovo”? Personalmente, perlomeno nei contratti B2B e nei pareri legali destinati alle imprese probabilmente propenderei per dire di no, quantomeno avuto specifico al “primo canone” del legal design (mentre, come appena detto, il secondo canone mi sembra nella sostanza inapplicabile ai contratti B2B). Nondimeno il legal design introduce degli elementi di novità.
In primo luogo mi sembra, ma è una mia personale impressione, che il (nuovo) legal design implicitamente renda evidente quanto, nella pratica di tutti i giorni, l’unitarietà del concetto di “contratto” stia entrando in crisi, vista la sempre più apparente divaricazione che si verifica nella redazione di contratti tra imprese e di contratti tra imprese e consumatori. Ciò sembrerebbe suggerire che per il giurista sia necessario adottare linguaggi, strutture, forme diverse nel redigere un testo contrattuale (o un parere legale), a seconda che si tratti di un contratto B2B o di un contratto B2C, con il design, nella sua definizione “estesa”, designer e psicologi compresi, chiamato a giocare un ruolo principalmente se non unicamente nei secondi.
Sebbene si tratti di un argomento pressoché ignorato dai fautori della teoria del legal design, mi sembra poi che, quantomeno in relazione alle tecniche di redazione dei contratti B2B,l’approccio prospettato dal legal design, quasi incidentalmente, introduca un ulteriore elemento di novità, in quanto dà dignità formale e per certi versi codifica quanto nella pratica già avviene, soprattutto nella redazione dei contratti B2B con la conseguenza di rivalutare quella che è stata definita la “voce debole” del linguaggio contrattuale utilizzato dalle imprese e dai loro consulenti giuridici, fondato sull’assunto che il giurista d’impresa o l’avvocato scrivono per comunicare con i destinatari e con gli utilizzatori dello scritto ed in funzione dello scopo, giuridico, ma non solo giuridico, che i clienti intendono raggiungere.
Così facendo, si trasforma quella che in passato è stata considerata una mera consuetudine della prassi in un messaggio per tutti i giuristi che scrivono di diritto, inclusi dottrina e giudici, nonché, verrebbe da aggiungere, anche il legislatore, (ma in quest’ultimo caso, almeno in Italia, personalmente io ho ormai perso la speranza …).
E dunque, grazie al legal design possiamo finalmente dire che “il Re è nudo” e sperare che tanti giuristi italiani che ancora li usano, si convincono ad abbandonare il tradizionale e confortevole “linguaggio oscuro del diritto” e gli peudo-tecnicismi che ne derivano, paciscenti compresi. I loro clienti probabilmente lo apprezzerebbero.
© Marco Bianchi Riproduzione riservata – Febbraio 2022
[1] Margaret Hagan così come citata sul sito legalgeek all’indirizzo www.legalgeek.co/learn/legal-design-wtf/
[2] Margaret Hagan “LAW by DESIGN” (cap. 6 “Future Agenda”) all’indirizzo https://lawbydesign.co/ consultato il 23 luglio 2021.
[3] In Italia si può fare riferimento al libro di Barbara de Muro e Marco Imperiale “Legal Design”, Giuffré (2021), ove gli autori definiscono il legal design ”una disciplina, frutto della combinazione di più saperi, che consente grazie all’uso di determinati strumenti e tecniche, di progettare prodotti di contenuto giuridico, perché siano al contempo precisi sotto il profilo tecnico-giuridico e comprensibili, efficaci e immediatamente fruibili sotto il profilo comunicativo”.
[4] Helena Haapio e Margaret Hagan “Design patterns for contracts” (14 marzo 2016) consultabile all’indirizzo https://www-cdn.law.stanford.edu/wp-content/uploads/2017/08/SSRN-id2747280.pdf .
[5] Ho introdotto, quasi incidentalmente, la distinzione tra lawyers’ contract e merchants’ contract in “Alcuni commenti di un pratico sul rapporto tra tecniche di redazione e prevenzione delle controversie nei contratti internazionali (ovvero di un certo qual ‘strabismo’ dei giuristi di ‘civil law’)”, Contratto e impresa/ Europa, CEDAM (2003, Fascicolo 2, Pagg. 768- 781) e l’ho portato con me nei miei scritti successivi fino al mio ultimo libro “Manuale dei Contratti Internazionali”, Giuffrè (2021) ove nell’introdurre le tecniche di redazione dei contratti internazionali ho approfondito le caratteristiche e le motivazioni dei due diversi approcci, lawyers’ contract v. merchants’ contracts (pagg. 22-33).
[6] Personalmente ricordo un parere in tema di diritti di proprietà intellettuale che diversi anni fa, quando ero un giurista d’impresa (la questione era estremamente dedicata ed importante per i miei colleghi, ingegneri e sales and marketing managers), chiesi ad un professore ed avvocato, peraltro molto bravo, non tanto per me, in quanto io avevo già una opinione sufficientemente chiara in merito, ma per i miei colleghi ingegneri e sales and marketing managers che esitavano a prendere una decisione (la questione era estremamente delicata in quanto comportava una modifica nella strategia distributiva dell’azienda). Ricevetti un testo di cinque pagine fitte fitte (formato A4), quasi che l’estensore avesse voluto risparmiare sulla carta utilizzata, senza spaziature tra un periodo e l’altro (periodi lunghi, densi di subordinate e di incisi), senza titoletti che “spezzassero” il testo e rendessero immediatamente comprensibile l’articolazione del ragionamento svolto dal Professore. Ammetto di aver dovuto leggere tre volte il parere prima di venire a capo delle involute circonlocuzioni del Professore e poi aver dovuto “tradurre” il parere in un testo “user-friendly” per i manager che avevano sollevato il problema. Conclusione: il parere, opportunamente “tradotto” e decodificato era perfetto, ma il Professore lo aveva scritto in “legalese”, come avrebbero detto i manager a cui sarebbe stato destinato, senza curarsi delle esigenze dei destinatari e dell’uso a cui il parere era destinato.
[7] La definizione è utilizzata da Gianrico Carofiglio nel podcast “Legal design insight con Gianrico Carofiglio” organizzato da legalcommunity che si può ascoltare all’indirizzo https://legalcommunity.it/legal-design-insight-gianrico-carofiglio/
[8] Queste considerazioni mi sono state anche ispirate dal libro di Barbara de Muro e Marco Imperiale già citato, ove, gli esempi offerti si riferiscono a documenti destinati a consumatori. Per la verità, viene offerto anche un esempio di accordo di riservatezza, che peraltro, a mio modo di vedere, è il contratto B2B più semplice, vorrei quasi dire banale (e nella mia esperienza mi è capitato di vederne di tutti i tipi, dagli accordi di riservatezza prolissi più del giusto e lunghi sei pagine, a quelli di una pagina ma nella sostanza altrettanto efficaci).
[9] Lord Justice Jackson, Does good faith have any role in construction contracts (Pinsent Masons Lecture in Hong Kong, November 2017) consultabile all’indirizzo https://www.judiciary.uk/wp-content/uploads/2017/11/speech-lj-jackson-masons-lecture-hong-kong.pdf. Il principio è del tutto analogo a quello espresso da Helena Haapio e Margaret Hagan nel loro articolo citato nella precedente nota 5, secondo le quali “After negotiating and signing the parties are expected to fulfill their obligations……. Most of the people in charge…. are not lawyers. Overly complex contracts may be ignored or misunderstood, and their implementation may suffer or fall.”,
[10] Marcel Fontaine- Filip De Ly “Doit des contrats internationaux Analyse et rédaction675-676 de clauses », Bruylant- Fec (2003) pag. 675-676.
[11] Marco Bianchi – Diego Saluzzo “I contratti internazionali 1 – Tecniche di redazione e clausole contrattuali”, Il Sole 24 Ore (1997). Analogo concetto l’ho poi ribadito ancor più chiaramente nel 2011 nella prefazione, pagg.X-XI, di “Tecniche di redazione dei contratti internazionali”, Ipsoa (2011) (“…ritengo che un contratto internazionale sia stato predisposto in maniera adeguata quando qualora un avvocato ed un ingegnere, o un manager commerciale, pur non avendo partecipato alla sua (redazione) e negoziazione siano in grado di leggerlo e di capirlo entrambi e soprattutto di comprendere con immediatezza le attività operative che ognuno di loro …deve svolgere per assicurare la puntuale esecuzione del rapporto contrattuale….”.)”