HARD LAW, SOFT LAW, DIRITTO DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE E PRINCIPI UNIDROIT. PERSONALI RIFLESSIONI A MARGINE DELLA RECENSIONE DI “DIRITTO DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE – FONDAMENTI E PROSPETTIVE” DI ALBERTO MAZZONI E MARIA CHIARA MALAGUTI”

SOMMARIO CAP.I – Dal diritto dei mercanti al diritto commerciale statuale, CAP.II – Il diritto degli scambi commerciali nell’ordinamento degli Stati nazionali: la vittoria del liberalismo e l’adozione generalizzata del Gold Standard, CAP. III – La fine del Gold Standard e la conversione al protezionismo economico e valutario, CAP.IV- Il diritto dell’ordine economico internazionale da Bretton Woods all’istituzione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, CAP.V – Il diritto dell’ordine economico internazionale dall’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio alla crisi del 2008, CAP.VI – Il quadro attuale: il diritto in concreto vigente e varietà delle sue fonti, CAP. VII – Soft law, Hard law e prassi arbitrale internazionale, CAP. VIII – La crisi dell’ordine economico contemporaneo, CAP. IX – Nemici ed amici del modello neo-liberale: la tensione tra ritorno dello statalismo, modelli di condivisione proposti dall’uniformazione del diritto e ruolo attivo della cooperazione tra privati, CAP. X – Considerazioni finali e prospettive di sintesi di cambiamento, APPENDICE Tavole di sintesi – Giappichelli Editore (2019) € 30.

Quando ho iniziato questo articolo pensavo di scrivere una semplice recensione. In realtà il libro che avrebbe dovuto formare oggetto della mia recensione, per l’appunto “Diritto Del Commercio Internazionale – Fondamenti e Prospettive”, scritto dal compianto Prof. Alberto Mazzoni, Presidente di Unidroit dal 2011 al 2019, e dalla Professoressa Maria Chiara Malaguti, attuale Presidente di Unidroit, offre molti spunti di riflessione, tanto che questo mio scritto, più che una recensione, ha finito per raccogliere una serie di mie personali osservazioni che prendono spunto dalle considerazioni svolte dagli Autori  in merito ad un tema che appassiona, e per certi versi divide, la dottrina, ovverosia il rispettivo ruolo di hard law e soft law (o forse proprio la loro contrapposizione), nel commercio internazionale.

Ciò pur con tutti i miei limiti, essendo io un “pratico” dei contratti internazionali, un practitioner come direbbero gli inglesi, il che certamente condiziona il mio modo di guardare al “diritto del commercio internazionale”.

  1. I primi Capitoli ovvero la storia del diritto internazionale dal Gold Standard alla Organizzazione Mondiale del Commercio, passando per Bretton Woods

Leggere i primi quattro Capitoli di questo libro, quelli più specificatamente dedicati ai fondamenti del diritto del commercio internazionale e che ne raccontano la “storia” passata, per certi versi mi ha fatto ringiovanire, ricordandomi, con chiarezza di linguaggio e di sintesi, quello che avevo studiato in Università (ahimè quasi quarant’anni fa) nel prepararmi all’esame di Diritto Internazionale: le origini della lex mercatoria nel tardo medioevo, il dirigismo e il mercantilismo, il Gold Standard, Bretton Woods, il GATT … .

Nei due successivi Capitoli affrontano il periodo che va dalla istituzione dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, con cui viene creato “un quadro istituzionale comune per la gestione delle relazioni commerciali internazionali tra i suoi membri” (e i membri dell’OMC sono ovviamente gli Stati nazionali), fino alle crisi finanziarie locali e alla crisi globale del 2008 (Cap. V) e al quadro attuale: “diritto (i.e. del commercio internazionale)  in concreto vigente e varietà delle sue fonti”, dedicato a trattati o convenzioni bilaterali o multilaterali tra Stati (Cap. VI).

  1. Il Capitolo VII dedicato a soft law, hard law ed arbitrato internazionale

2.1. Gli argomenti trattati …

Proseguendo nella lettura, era questo il Capitolo che potenzialmente speravo potesse essere, almeno dal mio punto di vista e guardando solo al titolo del capitolo, più interessante. In questo capitolo il punto di partenza degli autori, di per sé teoricamente condivisibile almeno nella sua prima parte, ma non nella conclusione che essi ne traggono, è che “sono fonti di norme rilevanti … a titolo di diritto internazionale non cogente [1] …istituti e prassi (i.e la soft law), la cui genesi è … quella di rispondere a un bisogno di regolamentazione che non può essere soddisfatto con il ricorso a regole o precetti formalmente vincolanti (i.e. la hard law)” (pag. 124).

Sono però rimasto quantomeno perplesso nel leggere il passo immediatamente successivo secondo cui tra tali istituti e prassi “meritano per prima segnalazione i Vertici internazionali tra gli Stati che rappresentano le maggiori economie del globo (i.e. i vari G7, G8, G20)”.

Nel proseguire la lettura la perplessità non è diminuita, soprattutto avendo poi anche compulsato la Tavola 4 (Governance e soft law) al fondo del libro. Ipersintetizzando, e senza poter qui menzionare tutte le istituzioni che sono citate in questo Capitolo, dopo G7, G8 è G20, seguono i vari “Standard Setting Bodies”, tra cui i Comitati di Basilea (supervisione banche) e gli International Accounting Standards Board (criteri contabili), gli istituti di uniformazione (Uncitral, Unidroit e Conferenza Permanente dell’Aja), la ICC – International Chamber of Commerce di Parigi (che in effetti ha prodotto regole ben note e correntemente utilizzate da quanti operano nel commercio internazionale, e il più ovvio riferimento è agli Incoterms ® e alle NUU 600 (Norme ed Usi Uniformi relativi ai crediti documentari), e, da ultimo ma non per ultimo, contratti-tipo e clausole standard redatte da associazioni di categoria.

2.2. … e le conclusioni che ne deriverebbero

Le conclusioni a cui giungono gli Autori in questo Capitolo VII (pagg.144-145 da (i) a (v), e pag. 165 punto (vi)), in estrema sintesi, sono le seguenti:

(i) gli “operatori economici internazionali” sono tentati dall’idea di non veder regolati i loro affari da “regole statali” tra loro diverse e “sovente di ardua conoscibilità ex ante”;

(ii) gli “operatori economici internazionali” troverebbero preferibile “la possibilità di avvalersi di ben note regole uniformi operanti … in ambito transnazionale e scaturenti … dalla prassi o … elaborate in modo da rispettare le aspettative della prassi”;

(iii) gli “operatori economici internazionali” reclamano “la libertà di un diverso sistema di regole transnazionali uniformi, avvertite come più vicine alla propria sensibilità e o propri interessi o bisogni pratici”;

(iv) i contratti standard predisposti da associazioni di categoria possono diventare “regola oggettiva transnazionale di un certo prodotto in conseguenza della loro capillare diffusione e generalizzata accettazione”;  

(v) a contribuire tale possibile ruolo dei contratti standard “di categoria” contribuisce “il più delle volte” il fatto che essi contengano “una clausola arbitrale non accompagnata da una clausola di designazione di un diritto statale come legge applicabile. Ciò al fine di ottenere interpretazioni della regola di mercato svincolate da obblighi di ossequio a leggi statali … ed orientate ad obiettivi di coerenza interna con i valori e gli interessi della categoria”[2].

(vi) sulla base di una interpretazione “estrema” che peraltro, come ammesso dagli Autori, “in molti paesi la dottrina o una parte della dottrina non condivide”, la Convenzione di New York consentirebbe di “denazionalizzare” tanto il contratto che la controversia che ne dovesse eventualmente scaturisce (fatte salve le eccezioni previste dall’art. V della Convenzione stessa), rinunciando alla identificazione di una qualsivoglia legge statale che disciplini il contratto (lex contractus) e la procedura arbitrale (lex arbitri) a favore di un sistema di diritto non statuale e transnazionale. Considerato che è assai difficile identificare ex ante i principi e le regole della moderna lex mercatoria[3], si legge nel libro che “una risposta più convincente che in passato” è quella di fare riferimento ai Principi Unidroit[4] intesi come “summa autorevole della vigente lex mercatoria”.

2.3. Un personale commento ed una altrettanto personale confutazione delle conclusioni del Cap. VII 

Prima di esprimere la mia opinione in merito a tali conclusioni mi sembra opportuno premettere in primo luogo che personalmente non ho compreso (mea culpa …)  il motivo per cui gli Autori abbiano utilizzato il termine “operatori economici internazionali”, e non già quello, più comune, di “imprese”, piccole o grandi che siano, che sono gli attori principali del commercio internazionale. Aggiungo che le conclusioni sopra riassunte in diversi casi sono formulate come se fossero dei meri assiomi, che, in quanto tali, non hanno bisogno di essere dimostrati.

Per contro forse capisco di più perché nelle conclusioni del Capitolo VII venga utilizzato il termine “regole statali” e non già termini quali “norme statali”, “leggi statali”, “disposizioni di legge statale”. Implicitamente ciò potrebbe consentire di mettere sullo stesso piano le “regole statali” e le “regole transnazionali uniformi”, il che sottace che le prime sono norme di diritto positivo mentre le seconde, in quanto norme di soft law, hanno un valore persuasivo e non direttamente vincolante.

Come detto agli inizi di questo scritto io sono un practitioner e ciò sicuramente influisce sul mio modo di intendere “il diritto del commercio internazionale”. Nondimeno, per quanto poco possa valere la mia opinione, nella sostanza non condivido le conclusioni formulate dagli Autori nel Cap. VII del libro sopra riassunte.

I motivi del mio dissenso in sintesi sono quelli qui di seguito indicati:

(a) Personalmente mi lascia quantomeno perplesso l’affermazione del tutto tranchant, ma anche del tutto apodittica, secondo cui per le imprese “regole statali (i.e. quelle straniere) siano “sovente di ardua conoscibilità ex ante”. Considerato che viviamo in un mondo ormai globalizzato, ove anche il commercio è pure globalizzato, gli studi legali specializzati nel commercio internazionale, magari anch’essi “globalizzati”, da tempo si sono creati delle reti di studi locali corrispondenti che sovente consentono alle imprese assistite (ove il valore economico del contratto lo giustifichi) di accertare, in relazione ad uno specifico contratto, la compatibilità delle disposizioni contrattuali che si vanno a predisporre con eventuali norme straniere, siano esse quelle della legge che i contraenti hanno concordato debba applicarsi al contratto internazionale che essi vanno a stipulare o piuttosto che le eventuali disposizioni di legge in vigore nello Stato ove il contratto deve essere eseguito, nonché alla relativa giurisprudenza (e in questo secondo caso il riferimento più immediato è all’inesistenza di norme imperative forti (internationally mandatory rules) che confliggano con le disposizioni contrattuali).

(b) Nel testo non vi è neppure alcuna motivazione per l’affermazione secondo cui le imprese (nel lessico degli Autori, come detto, gli “operatori economici internazionali”) preferirebbero avvalersi di “ben note regole uniformi operanti in ambito transnazionalee scaturenti … dalla prassi o … elaborate in modo da rispettare le aspettative della prassi” e qui, a confutazione, si può citare una autorevole dottrina che, riferendosi ai Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali, e seppur rammaricandosene, ammette che la loro rilevanza “in practice is still rather limited[5].  E dunque se assumiamo che “la pratica” debba anche essere sostanziata dal comportamento delle imprese che operano nel commercio internazionale sembrerebbe che esista una apparente distonia tra la asserita loro preferenza per “ben note regole uniformi operanti in ambito transnazionale” e la quotidiana realtà dei contratti commerciali internazionali.

Per parte mia ritengo che nella prassi quotidiana dei contratti internazionali più che affidarsi a delle regole (ma forse sarebbe meglio parlare di principi) transnazionali uniformi esterne al contratto, prevale ormai in primo luogo l’uso delle tecniche di redazione di derivazione anglosassone volte ad esplicitare non solo i rispettivi obblighi e diritti dei contraenti, ma anche a dettare le modalità della loro applicazione durante l’esecuzione del rapporto contrattuale (fermo comunque restando il limite posto dalle  norme imperative forti  di cui si è appena detto).

Niente a che fare comunque con i contratti “sans-loi”, in quanto i contratti internazionali non possono vivere in un “vacuum” giuridico, quanto piuttosto il tentativo di redigere un testo contrattuale che garantisca l’ordinato svolgimento del rapporto contrattuale. Per dirla utilizzando le parole di un giudice inglese «A large number of individuals who had nothing to do with drawing up the contract, have to operate in accordance with its provisions. They all need to know what the contract requires and what the contract permits. To that end, they do not speculate about ethics or metaphysics. Nor do they ring up their lawyers at every turn. They look at the black letter provisions of the contract» [6].

Ciò in quanto, quantomeno nei contratti internazionali di durata, il vero obiettivo delle imprese è quello di assicurare la regolare esecuzione del rapporto contrattuale, evitando, per quanto possibile, l’insorgere di una controversia, davanti ad un tribunale o ad un collegio arbitrale, che, a prescindere dal suo risultato, spesso rappresenterebbe comunque il fallimento degli obiettivi imprenditoriali che le imprese si proponevano di raggiungere all’atto della sottoscrizione del contratto.

In secondo luogo credo che sarebbe stato utile meglio spiegare le motivazioni della tesi secondo cui le “regole uniformi transnazionali” a cui oggi le imprese ambirebbero fare riferimento, siano a priori scaturenti “… dalla prassi o … elaborate in modo da rispettare le aspettative della prassi”. Potrebbe essere vero per i contratti tipo predisposti da alcune associazioni di categoria citate nel libro (GAFTA, FOSPA, SWIFT, ISDA), che peraltro in un mondo sempre più globalizzato, afferiscono soltanto ad alcuni degli infiniti settori merceologici in cui si articola il commercio internazionale.

Nondimeno il riferimento al raggiungimento del “rispetto delle aspettative della prassi” mi lascia comunque dubbioso per il fatto che molti degli strumenti di soft law sono stati elaborati da giuristi accademici senza un istituzionalizzato coinvolgimento e confronto con quelli che potremmo definire, credo a ragion veduta, i “rappresentanti della prassi” (imprese, associazioni di categoria, studi legali internazionali), come invece accade, solo per fare un esempio, nell’Unione Europea ove, prima di modificare un qualche Regolamento di esenzione per categoria, la Commissione è solita avviare una consultazione pubblica a cui chiunque, “rappresentanti della prassi” inclusi, può partecipare con propri commenti ed osservazioni poi puntualmente resi pubblici sul sito della Commissione UE;

(c) Un altro problema irrisolto a mio modo di vedere deriva dal fatto che le regole di diritto da applicare ad un dato contratto internazionale, siano esse quelle statali piuttosto che “regole uniformi operanti … in ambito transnazionale”, dovrebbero in ogni caso essere interpretate ed applicate anche in funzione delle specificità della singola tipologia contrattuale e delle circostanze del caso concreto, e non è un caso che una controversia, la cui soluzione sia demandata ad un arbitrato o alla giurisdizione ordinaria, a seconda di quanto concordato dai contraenti all’atto della sottoscrizione del contratto, spesso insorga proprio per il disaccordo tra i contraenti in merito alla interpretazione di tali regole quando “calate” nella realtà del singolo rapporto contrattuale (e il pericolo di una difforme interpretazione normalmente è causato o aggravato da una inadeguata redazione dal testo contrattuale).

Ipotizziamo però per un momento che, dall’oggi al domani, tutte le controversie scaturenti da un qualche contratto internazionale debbano e possano essere risolte da “regole uniformi operanti … in ambito transnazionale”, escludendo così qualsiasi “regola statale” disposta dalla legge applicabile scelta dalle parti, o, in carenza di una scelta espressa, identificata sulla base delle Convenzioni internazionali e dei Regolamenti (UE) concernenti la legge applicabile ai contratti.

L’avveramento di tale ipotesi per le imprese, e per i consulenti legali che le assistono, comporterebbe non soltanto il venir meno della possibilità di riferirsi a tali “regole statali”, ma anche a tutta la relativa giurisprudenza anch’essa statale, magari frutto di decenni di decisioni, che, nel tempo, ha contribuito a interpretare e chiarire tali “regole statali” alla luce delle infinite circostanze dei singoli casi.

In una tale eventualità l’”azzeramento” della giurisprudenza statale, che andrebbe di pari passo con   l’abbandono di qualsivoglia “regola statale” avrebbe come immediato effetto di privare le imprese di una interpretazione consolidata e di rendere per loro più difficile la valutazione della convenienza e le possibilità di successo di eventuali controversie, avanti un tribunale statale o ad un collegio arbitrale che siano, (fatta ovvia eccezione per il caso di un conclamato inadempimento della controparte).

In questo caso il vero problema probabilmente sarebbe un altro: quanti anni, ma forse sarebbe meglio dire quanti decenni, dovrebbero passare per creare una nuova giurisprudenza basata sulle “regole uniformi operanti … in ambito transnazionale” sostitutive delle “regole statali”?

Prendiamo ad esempio quel che è accaduto alla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci del 1980 (“CISG”), entrata in vigore nel 1988: sul sito dell’Uncitral[7] sono elencati poco più di 2000 casi  in cui la controversia è stata risolta dai giudici statali o dagli arbitri sulla base delle disposizioni della CISG in quanto,  per scelta espressa dei contraenti o anche solo perché  le parti non ne avevano espressamente escluso funzione di quanto previsto dal contratto la cui esecuzione aveva dato origine alla controversia con una media annua di circa 80 decisioni (nel mondo).

Quasi sicuramente il numero di casi giudicati nel mondo in accordo con quanto previsto dalla CISG è maggiore in quanto non necessariamente l’Uncitral è riuscita a registrare tutte le sentenze e le decisioni intervenute tra il 1988 ed il 2023. Possiamo quindi dare per scontato, che la giurisprudenza relativa alla Convenzione di Vienna si sia arricchita di ulteriori casi talché possiamo giustamente dire che, ove si applichi la Convenzione, le imprese, e i loro consulenti giuridici, possono oggi contare su orientamenti giurisprudenziali relativamente consolidati.

Resta comunque il fatto che tale risultato è stato raggiunto in più di quarant’anni dalla data di entrata in vigore della Convenzione di Vienna (e oltretutto in relazione ad una singola tipologia contrattuale, per l’appunto il contratto internazionale di compravendita di merci, seppur declinata ed interpretata in accordo con quanto previsto dalla Convenzione e dalla relativa giurisprudenza).

Nell’eventualità che “ben note regole uniformi operanti in ambito transnazionale” (e il riferimento più ovvio sembrerebbe essere ai Principi Unidroit) dovessero prevalere, o proprio soppiantare, le “regole statali” quanti anni ci vorrebbero per costruire una nuova giurisprudenza che affianchi o gradatamente sostituisca quella basata sulle “regole statali”?

(d) Una ulteriore conclusione che ritroviamo nel Cap. VII è quella secondo cui, seppur sulla base di una “interpretazione estrema” che peraltro “in molti paesi la dottrina o una parte della dottrina non condivide”, la Convenzione di New York consentirebbe di “denazionalizzare” tanto il contratto che l’arbitrato che eventualmente ne dovesse scaturire (fatte salve le eccezioni previste dall’art. V della Convenzione stessa), rinunciando alla identificazione di una qualsivoglia legge statale che disciplini il contratto (lex contractus) e la procedura arbitrale (lex arbitri) a favore di un sistema di diritto non statuale e transnazionale.  Ma quale può essere tale sistema?

Considerato che è assai difficile identificare i principi e le regole di una moderna lex mercatoria, secondo gli Autori la risposta più convincente è quella di fare riferimento ai Principi Unidroit intesi come “summa autorevole della vigente lex mercatoria”.

Qui ho due obiezioni. La prima è ovvia: non tutti i contratti internazionali in caso di controversia prevedono il ricorso all’arbitrato, anzi, probabilmente è assai più ricorrente la scelta di fare ricorso alla giurisdizione ordinaria di un dato Stato.

Non che questo sottenda un disfavore per l’arbitrato, che anzi nei contratti internazionali più complessi e con un valore economico rilevante l’arbitrato sovente è quasi una scelta obbligata, ma ciò non significa che non possa essere altrettanto attraente per i contraenti il ricorso ai tribunali ordinari, tanto più se essi siano quelli di uno Stato con un sistema giurisdizionale strutturato, efficiente e ragionevolmente in grado di offrire un’adeguata considerazione alle ragioni dell’una e dell’altra parte.

La seconda più che una obiezione è soltanto una personale considerazione e quindi vale quel che vale: in più di trent’anni ho negoziato contratti di ogni tipo in giro per il mondo (acquisizioni, equity joint venture, licenze di know-how, R&D agreements, distribution agreements, long-term supply agreements): io non ho mai redatto e, se redatto dalla controparte, non ho mai visto un contratto internazionale ove i contraenti non abbiano indicato la applicable law, e parlando con gli avvocati di controparte, tanto di civil law che di common law, non ne ho mai incontrato uno che mi abbia espresso il desiderio o la possibilità che il contratto che stavamo negoziando fosse disciplinato non già una legge statale ma  soltanto da un qualche sistema di “regole uniformi transnazionali”.

  1. Le considerazioni finali del Capitolo X

Nell’ultimo Capitolo del libro, nell’affrontare la questione del rapporto tra legge applicabile (i.e. la legge statale scelta dai contraenti) e diritto transnazionale uniforme gli Autori ipotizzano per il futuro una possibile alternativa tra l’uniformazione portata da “un sistema coeso di regole non statali transnazionalmente uniformi” o un nuovo “policentrismo” giuridico, ovverosia la concorrenza tra la legge degli Stati che hanno fin qui egemonizzato, a dire degli Autori, il commercio internazionale, e cioè USA e Stati dell’Unione Europea[8], e quelli degli Stati che ormai sono divenuti anch’essi potenze economiche, e il cui ordinamento giuridico non necessariamente potrebbe essere in grado di cogliere le esigenze del commercio internazionale (pag.239).

La conseguenza immaginata, o forse sarebbe meglio dire auspicata, dagli Autori, è che l’incombente “policentrismo giuridico” dovrebbe favorire sempre più l’uso nel commercio internazionale di “regole uniformi transnazionali non riconducibili alla legge di singoli Stati”.

A differenza degli Autori, personalmente ritengo che il “policentrismo giuridico” in realtà abbia quantomeno contribuito alla disseminazione, a cui hanno in alcuni casi contribuito le norme di “soft law”, Principi Unidroit inclusi, negli ordinamenti giuridici dei nuovi “poli”, o quanto di molti di essi, di concetti giuridici propri dei sistemi di civil law e di common law[9].

Ne consegue, a mio parere, che le imprese non devono quindi temere il “policentrismo” di per sé stesso, quand’anche esso metta dei limiti alla asserita “egemonia” dei sistemi giuridici “occidentali”, quanto considerarlo una inevitabile conseguenza della globalizzazione del commercio internazionale.

  1. Gli ultimi miei commenti

Per dirla in estrema sintesi, almeno a mio modo di vedere, gli Autori sembrano guardare al commercio internazionale esclusivamente “dall’alto” tanto che, visti i suoi contenuti, quantomeno dal punto di vista del lettore, un titolo alternativo del libro, forse più consono ai suoi contenuti, potrebbe essere “Diritto della cooperazione economica internazionale”.

A mio parere, ma, non mi stancherò mai di dirlo, io sono un “pratico” dei contratti internazionali, manca in questo libro l’attenzione al ruolo degli attori principali della quotidianità del commercio internazionale, quelli che erano i mercatores di un tempo andato, e che sono oggi le imprese[10],  e allo strumento che esse ogni giorno utilizzano per commerciare, il contratto per l’appunto, che come detto, non è solo mera esposizione dei reciproci obblighi e diritti ma anche un luogo in cui giorno per giorno viene creato “il diritto”, inteso ovviamente in senso lato,  attraverso la continua ”invenzione” di nuove clausole, di nuove soluzioni o proprio di nuovi tipi contrattuali.

Aggiungo che se oggi devo predisporre un contratto di equity joint venture o uno SPA, un contratto di acquisizione, in linea generale la struttura logica del contratto, ed i problemi che devo disciplinare sono i medesimi e le possibili soluzioni che ho a disposizione sono le stesse, e altrettanto può dirsi per la struttura delle clausole che andrò a predisporre, sia che la mia controparte sia australiana piuttosto che cinese o tedesca.

Certo dovrò prima verificare se la struttura del contratto che utilizzo abitualmente,  e le soluzioni contrattuali che ho a disposizione nel redigere il testo contrattuale, siano compatibili con le norme imperative dello Stato (internationally mandatory rules) dove dovrà essere costituita la JV company o dove ha sede la società target o, ancora, con quelle della legge statale che andrò a proporre alla controparte quale applicable law (verifica che naturalmente dovrà essere tanto più accurata in funzione delle dimensioni economiche del deal).

In questo senso si potrebbe dire che, almeno per certe tipologie contrattuali, le clausole contrattuali create e codificate dalla prassi per i singoli tipi contrattuali rappresentano una sorta di “linguaggio transnazionale” utilizzato dalle imprese e dai loro consulenti giuridici per la redazione dei contratti internazionali, ed un “terreno comune” per la loro successiva negoziazione.

Mi ha sorpreso poi il fatto che nel libro non vi sia una qualche riflessione in merito ad uno dei più consolidati esempi di “regole transnazionali (o, meglio, sovranazionali) uniformi”, forse perché si tratta di regole fin dall’inizio destinate ad essere recepite nel diritto di singoli Stati.

Mi riferisco in primo luogo, in quanto più direttamente afferenti i contratti internazionali ed il commercio B2B, ai Regolamenti di esenzione per categoria ex art. 101.3 TFUE – Trattato al Funzionamento dell’Unione Europea e, per certi versi, anche alle Direttive dell’Unione Europea[11] (sebbene queste ultime, a differenza dei Regolamenti che sono immediatamente applicabili negli Stati UE, debbano essere recepite dai singoli Stati dell’Unione Europea prima di divenire, a tutti gli effetti, “norme statali”), le cui disposizioni le imprese impegnate nel commercio internazionale all’interno della UE devono rispettare per non contravvenire a quanto previsto dall’art. 101.1 TFUE in tema di concorrenza.

È pur vero che, come appena sopra ricordato, lo scopo di tali Regolamenti non è certo quello di creare delle “regole transnazionali uniformi” destinate a sostituirsi alle “norme statali” (in quanto al pari delle Direttive i Regolamenti nella sostanza vengono sussunti nell’ordinamento dei singoli Stati UE) ma soltanto quello di impedire che la concorrenza all’interno del mercato interno UE, per usare le parole dell’art. 101.1 TFUE, sia impedita, ristretta o falsata.

È però altrettanto vero che all’interno della Unione Europea tali Regolamenti di esenzione nella pratica hanno contribuito ad armonizzare almeno in parte i contenuti dei tipi contrattuali a cui ognuno di essi si riferiva, seppure sempre limitatamente, per quanto attiene ai Regolamenti di esenzione, a quelle pattuizioni contrattuali che possano avere un effetto negativo sulle dinamiche della concorrenza. Ed è altrettanto vero che la Direttiva 86/653/CEE relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti ha sostanzialmente contribuito ad uniformare all’interno la disciplina, ed il contenuto dei relativi contratti, all’interno dell’Unione Europea.

L’ambito contrattuale non è però il solo ove l’Unione Europea ha creato dei Regolamenti che hanno avuto per effetto di creare e mi riferisco al Regolamento “Roma I” ed ai Regolamenti Bruxelles I e II, rispettivamente dedicati alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali e alla competenza giurisdizionale e al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale nell’Unione Europea, che hanno creato delle “regole comuni” destinate a valere in tutta l’Unione Europea  rispettivamente dedicati alla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali e alla competenza giurisdizionale

Può essere utile qui ricordare che la bozza del Regolamento Roma I prevedeva che le parti potessero scegliere come legge applicabile un diritto non statale, con particolare riferimento ai Principi Unidroit e ai PECL Principles of European Contract Law, vietando però al contempo la scelta della lex mercatoria, in quanto insufficientemente precisa. Tale disposizione è stata peraltro espunta dal testo finale del Regolamento, rimanendone peraltro traccia nel Considerando 13 del Regolamento Roma I (“Il presente regolamento non impedisce che le parti includano nel loro contratto, mediante riferimento, un diritto non statale ovvero una convenzione internazionale”).

Resta peraltro il fatto che una clausola che indichi per esempio che il contratto è soltanto disciplinato dai Principi Unidroit, nel sistema di Roma I, e quindi all’interno dell’Unione Europea, non equivale ad una “choice of applicable law” ma ad una mera assenza di scelta della legge applicabile che dovrà essere quindi determinata dal giudice sulla base delle disposizioni di Roma I.

In questo caso il riferimento ad un “diritto non statale” dunque comporta soltanto un richiamo per relationem al “diritto non statale” richiamato dai contraenti nel contratto, ferma comunque restando l’applicazione della legge applicabile scelta dai contraenti o determinata dal giudice o dagli arbitri.

  1. Una domanda finale …

Prima di concludere questo lungo excursus di quella che in origine avrebbe dovuto essere soltanto una recensione, resta un’ultima domanda a cui rispondere e cioè quale possa essere il futuro delle norme di soft law, Principi Unidroit inclusi.

L’auspicio degli Autori illustrato nel Capitolo VII del libro è che le “non-State rules of law” possano affiancarsi o proprio rappresentare un’alternativa alle “regole statali”. Come ho già accennato, un primo problema causato dall’avverarsi di un simile auspicio avrebbe però come primo risultato di far perdere alle imprese, ed ai loro consulenti giuridici, la possibilità di avvalersi del patrimonio rappresentato dalle sentenze decise nei singoli Stati, sulla base di “regole statali”, in relazione a controversie insorte in connessione con un qualche aspetto di un contratto internazionale.

Un ulteriore problema, peraltro non esaminato nel libro, potrebbe poi essere rappresentato dalla difficoltà di conciliare e unificare in un unico organico sistema di regole non statali transnazionalmente uniformi la tradizione giuridica propria delle varie famiglie giuridiche esistenti nel mondo, e il più immediato riferimento  è a common law e civil law, e qui mi riferisco, per fare un esempio, in primo luogo al diverso approccio dei due sistemi all’interpretazione del contratto: nella common law “parol evidence rule (four corner rule) – la ricerca dell’oggettivo significato che, nel contesto e nelle circostanze in cui il contratto è stato concluso, un reasonable man avrebbe attribuito alle espressioni usate” – interpretazione oggettiva v. “la comune intenzione delle parti” – interpretazione soggettiva[12] .

Se guardiamo ai Principi Unidroit dei contratti commerciali internazionali (2016)[13], che sono forse il più compiuto esempio di “non-State rules of law”, il tentativo è stato, per così dire, quello di “aggirare” il problema, in quanto l’art. 4.1 dei Principi[14] dedicato all’interpretazione del contratto e significativamente intitolato “Intenzione delle parti”, almeno formalmente contempla entrambe le soluzioni, quella di civil law e quella di common law.

Le due soluzioni tuttavia non sono poste sullo stesso piano, in quanto l’adozione della soluzione tradizionale di common law è meramente eventuale ed utilizzabile soltanto qualora la soluzione propria dei sistemi di civil law (la ricerca della comune intenzione delle parti in senso soggettivo) non porti alcun risultato non potendosi determinare la “comune intenzione delle parti”.

Per quanto sia comprensibile il tentativo di raggiungere un qualche equilibrio tra i due diversi approcci all’ermeneutica contrattuale, quanto può essere ben accolta nei sistemi di common law[15] una soluzione quale quella proposta dall’art.4 dei Principi Unidroit (2016) che, nella sostanza, privilegia in primo luogo i criteri di interpretazione del contratto tipici degli ordinamenti giuridici di civil law?

Un altro articolo dei Principi Unidroit (2016) che personalmente ritengo possa apparire problematico in relazione alla common law (o forse risulta proprio problematico in generale …) è l’art. 3.2.7. (Eccessivo squilibrio)[16] peraltro già presente nella precedente edizione 2010 dei Principi.

In estrema sintesi tale articolo dispone che uno dei contraenti possa annullare il contratto, o una sua singola clausola, che attribuivano ingiustificatamente all’altra parte un vantaggio eccessivo, ed include, tra i motivi che giustificano l’annullamento, anche “l’imperizia, l’ignoranza, l’inesperienza o la mancanza di abilità a trattare” del contraente che annulla il contratto, aggiungendo poi che, su richiesta della parte che ha diritto all’annullamento, “il giudice può adattare il contratto o le sue clausole in modo da renderlo conforme ai criteri ordinari di correttezza nel commercio”.

Prima di offrire alcune considerazioni in merito alla compatibilità di una simile clausola con la common law, posso aggiungere una mia personale considerazione. Se avessi dovuto spiegare all’Amministratore Delegato della società che assistevo che un contratto (B2B)  debitamente sottoscritto dalla nostra società con un’altra società terza poteva essere annullato in quanto la nostra controparte era inesperta, ignorante, incapace di negoziare (e magari era stata pure assistita da un avvocato incompetente …) o addirittura “riscritto” e modificato da un giudice o da un arbitro, credo che sarebbe rimasto incredulo e completamente allibito, tanto più se gli avessi poi chiarito che un arbitro poteva “adattare il contratto o le sue clausole in modo da renderlo conforme ai criteri ordinari di correttezza nel commercio”.

Tale articolo in effetti suscita tante domande ma non offre altrettante risposte. Quando un vantaggio è “ingiusto”? Con quali parametri si determina il grado di” imperizia, ignoranza, inesperienza o mancanza di abilità a trattare”? Quali sono “i criteri ordinari di correttezza nel commercio” a cui il contratto dovrebbe essere ricondotto? Esistono tali criteri, se ed in quanto siano diversi ed ulteriori rispetto alla buona fede di cui all’art.1.7 dei Principi Unidroit?

In realtà, per così come è strutturato e tenuto conto della limitata giurisprudenza in tema di Principi Unidroit, l’art. 3.2.7, volutamente o meno, finisce per attribuire al giudice[17] o, più normalmente, all’arbitro una latitudine apparentemente assoluta nel rispondere a tali domande e quindi nel decidere quando e come applicare la disposizione e, se del caso, nel definire il contenuto degli “adattamenti” al contratto originariamente sottoscritto dai contraenti, sostituendosi ad essi. .

Come conciliare tale articolo con le soluzioni rispettivamente prospettate dagli ordinamenti di civil law e di common law?

Guardando ai sistemi di civil law, e in particolare all’ordinamento giuridico italiano, superficialmente si potrebbe forse ipotizzare una qualche affinità con l’istituto della rescissione per lesione d cui all’art. 1448 cod. civ italiano, ma il confronto tra le due disposizioni non sembra avere alcuna ragion d’essere, in quanto nel codice civile italiano la rescissione è consentita soltanto in quanto la sproporzione sia dovuta all’approfittamento dello stato di bisogno del contraente che invoca la rescissione (e non certo alla sua ingenuità o alla sua incompetenza), sempreché tale sproporzione sia tale da superare il limite oggettivo posto dallo stesso art. 1448 cod. civ (sproporzione ultra dimidium), e fermo in tal caso restando che l’unico rimedio è, per l’appunto, rappresentato dalla rescissione del contratto, fatto salvo il disposto dell’art. 1450 cod. civ secondo cui il contraente contro il quale è domandata la rescissione può evitarla offrendo una modificazione del contratto tale da ricondurlo ad equità (ma in questo caso le eventuali modifiche contrattuali sono pur sempre dovute all’accordo degli originari contraenti e non certo alla mera valutazione dell’arbitro ed alla sua personale interpretazione di quali siano i “criteri ordinari di correttezza nel commercio” applicabili al caso di specie ove venissero applicati i Principi Unidroit).

Non che in common law l’art. 3.2.7 non crei problemi. A tale proposito occorre ricordare che la tradizionale teoria del contratto di common law storicamente si è gradualmente sviluppata, tra gli altri, sulla base di principi “caveat emptor” (“compratore attento”), “freedom of contract” (nella sostanza la libertà dei contraenti di determinare il contenuto del contratto da essi sottoscritto, sebbene con le limitazioni previste dall’ordinamento giuridico di riferimento a cominciare da fraud, misrepresentations, implied terms e oggi sempre di più dagli Statutes, le leggi statali) e la parol evidence rule di cui si è detto, principi questi che non sembra facile contemperare con  le disposizioni dei Principi Unidroit se intesi, per usare le parole degli Autori, come la “summa autorevole della vigente lex mercatoria”.

  1. … ed una possibile risposta.

E dunque con queste premesse quale può essere il ruolo della soft law, e in particolare più specificatamente dei Principi Unidroit? Come credo risulti chiaro dalle considerazioni che ho svolto in precedenza, personalmente ritengo non soltanto irrealizzabile ma, almeno per molti versi, neppure auspicabile, la tesi che ambirebbe alla sostituzione del diritto creato dal legislatore statale, il “diritto degli Stati”, con “un sistema coeso di regole non statali transnazionalmente uniformi” o “ben note regole uniformi operanti in ambito transnazionale”, per usare i termini utilizzati dagli Autori.

Nondimeno questo ciò non significa che i Principi Unidroit non possano ricoprire un ruolo non banale nelle dinamiche del diritto del commercio internazionale il che accade (i) ove le parti di un contratto internazionale prevedano espressamente che essi trovino applicazione per offrire, particolarmente nei contratti di lunga durata, soluzioni a problemi irrisolti dalla legge altrimenti applicabile al contratto, o per contribuire a chiarirne l’interpretazione, svolgendo così una funzione integrativa e suppletiva rispetto alle disposizione di tale legge statale[18], o (ii) nell’eventualità che i Principi vengano utilizzati, soprattutto dagli arbitri ma anche a volte dai giudici nazionali, per sostenere, ad adiuvandum, la bontà dell’interpretazione da essi data alle disposizioni della legge statale applicabile al caso contratto che ha dato luogo ad una controversia. In questi casi i Principi Unidroit svolgono una funzione di integrazione e di interpretazione del diritto statale applicabile.

Ciò senza dimenticare che i Principi Unidroit hanno svolto e possono ancora svolgere una funzione “persuasiva” in quanto in qualche misura hanno offerto, e continuano ancora ad offrire ai legislatori nazionali un modello o comunque un riferimento da utilizzare nella modernizzazione delle esistenti disposizioni codicistiche dedicate ai contratti[19].

E dunque per apprezzare la soft law, ed in particolare i Principi Unidroit, occorre apprezzarne la funzione ma riconoscerne al tempo stesso i limiti.

Marco Bianchi© Riproduzione riservata – Ottobre 2023

 

 

[1] In questo passo del libro e negli altri successivi, le sottolineature sono mie.

[2] Non ho alcuna esperienza nei settori merceologici ove operano le associazioni citate (GAFTA, FOSPA, SWIFT, ISDA) e quindi posso certamente sbagliarmi, ma, per fare degli esempi, mi sembra che le Arbitration Rules No.125 GAFTA (art.1.1.) prevedono l’applicazione dell’Arbitration Act 1996 inglese mentre, per esempio, il Contract No.82 GAFTA (art.22) dispone che “this contract shall be construed and take effect in accordance with the laws of England”.

[3] Un commento più netto è quello di Giorgio De Nova (“Il Sale and Purchase Agreement: un contratto commentato”, Giappichelli, 2a Ed. (2014), ove si legge (pag.7) “Che qualcuno scriva un Sale and Purchase Agreement scegliendo come legge applicabile la lex mercatoria o norme omologhe non è verosimile, perché queste regole e principi sono perlopiù generici, vaghi e ambigui. V’è grande incertezza sia sul loro significato, sia sulle loro possibili applicazioni concrete, per cui nessun operatore economico si fida di fare rinvio solo a tali regole, senza prevedere come legge applicabile una legge nazionale”.

[4] In passato ho già pubblicato sul mio sito contrattiinternazionalidimarcobianchi due post dedicati all’edizione 2010 dei Principi Unidroit ( “PRINCIPI UNIDROIT 2010: GLI ERRORI DELLA VERSIONE ITALIANA (OVVERO I PRO E I CONTRO DEL COPIA E INCOLLA)” e  “IN MARGINE A “PRINCIPI UNIDROIT 2010: GLI ERRORI DELLA VERSIONE ITALIANA (OVVERO I PRO E I CONTRO DEL COPIA E INCOLLA)” peraltro dedicati ad una questione relativamente marginale, seppur non banale, quantomeno per i potenziali fruitori dei Principi.

 

[5] Michael Joachim Bonell “The law governing international commercial contracts and the actual role of the Unidroit Principles,” Uniform Law Review, Oxford University Press, Vol. 23, 2018, pagg. 15–41.

[6] Lord Justice Jackson, “Does good faith have any role in construction contracts” (Pinsent Masons Lecture in Hong Kong, November 2017)

[7] Una raccolta di casi relativi alla CISG ed ai Principi Unidroit registrati fino al 2022, peraltro meno completa di quella dell’Uncitral, almeno per quel che attiene alla CISG (CISG  1085 casi, Principi Unidroit 557 casi, di cui 327 casi decisi dai tribunali e 230 da arbitrati) è poi anche reperibile sul sito https://www.unilex.info/ .

[8] Gli Autori sembrano attribuire tale “egemonia” al fatto che in alcuni specifici Stati “occidentali” sono ubicati “grandi centri finanziari che hanno alle spalle una lunga familiarità con la prassi dei più importanti mercati internazionali” riferendosi specificatamente a New York e Londra. In altri casi la dottrina italiana ha fatto riferimento, più specificatamente, all’influenza determinante delle multinazionali e dei grandi studi legali anglo-sassoni. Se è pur vero che troppo spesso le multinazionali, quantomeno quelle americane, e i loro consulenti giuridici, hanno avuto un atteggiamento per così dire “imperialistico”, teso a riproporre in maniera acritica i modelli contrattuali americani e ad imporre quale legge regolatrice del contratto internazionale quella di questo o quello Stato U.S.A (solitamente quella dello Stato ove la multinazionale ha la propria sede …), credo che questo non sia tanto, o soltanto, dovuto ai motivi tradizionalmente addotti dalla dottrina italiana, quanto al progressivo diffondersi, per le ragioni di cui ho accennato nel precedente paragrafo 2.3. (b), delle drafting techniques anglosassoni.

[9] Un primo riferimento, che ritroviamo anche nel libro, è alla Cina, il cui ordinamento giuridico negli ultimi decenni, parallelamente  allo sviluppo dell’economia cinese, abbia grandi passi, e non è forse un caso che nel 2020 sia stato promulgato, dopo una gestazione durata più di vent’anni, il Civil Code, la cui redazione è stata peraltro influenzata, quantomeno nella struttura della parte dedicata ai contratti, dalla tradizione di civil law ed in particolar modo da quella tedesca.

 

[10] In realtà questa mia considerazione non è nuova o particolarmente originale e, a tale proposito, vale qui la pena menzionare l’opinione di Lord Mustill, un giudice inglese, che già alla fine degli anni 80 del secolo scorso scriveva “the commercial man is a conspicous absentee from the writings on the lex mercatoria” in Mustill LJ. “The New Lex Mercatoria: The First Twenty-Five Years”, Arbitration International 4, 2 (1987) pag. 86.

[11] L’ovvio riferimento è alla Direttiva 86/653/CEE del Consiglio del 18 dicembre 1986, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti, che ha introdotto misure di armonizzazione delle disposizioni normative con cui i singoli Stati membri fino a quel momento avevano disciplinato i rapporti tra gli agenti commerciali ed i loro preponenti.

[12] Lo scopo di questo contributo non è certo quello di approfondire il tema dell’interpretazione del contratto nei sistemi di common law, Inghilterra e U.S.A.  Va comunque detto che la parol evidence rule è comunque il punto di partenza, e che nei sistemi di common law rimane costante il dibattito su due distinti approcci alla questione dell’interpretazione del contratto, l’approccio contestualista e l’approccio testuale. Mentre il primo approccio, quello contestualista (che è sì più moderno ma potenzialmente può mettere in crisi la certezza e la prevedibilità, desiderata dai businessmen, dell’esito della controversia) auspica che nell’interpretare il contratto si debba anche tener conto delle circostanze in cui esso è stato concluso e del “commercial common sense”. Per contro i sostenitori dell’approccio testuale auspicano un’interpretazione basata sul normale significato delle disposizioni contrattuali, ritengono che l’approccio contestuale potrebbe portare i giudici a sottovalutare il dato testuale del contratto finendo per (re)interpretare o proprio per riscrivere il contratto. Del confronto tra le due teorie si trovano traccia anche nelle sentenze dei giudici inglesi, inclusi quelli della Corte Suprema, che negli ultimi quindici anni ha emesso diverse sentenze che di volta in volta sembravano propendere verso l’uno o l’altro dei due approcci. Lo scontro tra i sostenitori dell’una o dell’altra teoria non è comunque limitato all’Inghilterra e  le due teorie sono state oggetto di ampio dibattito anche negli U.S.A., con l’approccio contestualista, apparentemente favorito dalle disposizioni dell’Uniform Commercial Code, e l’approccio testuale tendenzialmente maggiormente apprezzato dalle imprese (e non è un caso che la gran parte dei contratti B2B notificati alla Security Exchange Commission indichino come legge applicabile quella dello Stato di New York, fortemente orientata a basare l’interpretazione dei contratti commerciali sull’approccio testuale, e non quella dello Stato della California, più incline ad utilizzare un approccio contestualista).

[13] I Principi Unidroit ricomprendono 210 articoli organizzati in 11 capitoli che disciplinano formazione e rappresentanza, contrarietà a norme imperative, interpretazione, contenuto, contratto a favore di terzi, adempimento, inadempimento, compensazione, cessione dei crediti, trasferimento delle obbligazioni e cessione del contratto, prescrizione, pluralità di debitori e creditori

[14] Principi Unidroit (2016) Art. 4.1 (Intenzione delle parti) “(1) Un contratto deve essere interpretato secondo la comune intenzione delle parti. (2) Se tale intenzione non può essere determinata, il contratto deve essere interpretato secondo il significato che persone ragionevoli della stessa qualità delle parti avrebbero ad esso attribuito nelle medesime circostanze”.

[15] La soluzione adottata nei Principi Unidroit di prevedere l’applicabilità di entrambi i criteri interpretativi probabilmente è l’unica possibile e si ispira a quanto già previsto dalla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di merci del 1980, il cui art. 8 adotta, seppur con un linguaggio più cauto, il medesimo approccio (“1. Ai fini della presente Convenzione, le indicazioni ed altri comportamenti di una parte devono essere interpretati secondo l’intenzione di quest’ultima quando l’altra parte era a conoscenza o non poteva ignorare tale intenzione. 2. Se il paragrafo precedente non è applicabile, le indicazioni ed altri comportamenti di una parte devono essere interpretati secondo il senso che una persona ragionevole, di medesima qualità dell’altra parte, posta nella medesima situazione, avrebbe loro dato.  3. Al fine di stabilire l’intenzione di una parte o ciò che avrebbe inteso una persona ragionevole, si dovrà tener conto delle circostanze pertinenti, in particolare dei negoziati eventualmente intercorsi fra le parti, delle consuetudini fra di esse stabilitesi, degli usi e di ogni loro successivo comportamento). Resta il fatto che la scelta adottata nei Principi Unidroit, e in maniera più prudente e circoscritta dalla CISG di attribuire ai criteri interpretativi di common law un ruolo ancillare ed eventuale rispetto a quelli di civil law, la rende meno attraente per i giuristi di common law e probabilmente non è dunque un caso che Inghilterra ed Irlanda non abbiano aderito alla Convenzione di Vienna, peraltro in ciò differenziandosi da U.S.A., Canada, Australia e Nuova Zelanda, che, pur essendo anch’essi Stati il cui ordinamento giuridico si rifà alla common law, quantomeno limitatamente ai contratti internazionali di compravendita hanno quindi accettato un approccio più conciliante con quello tipico dei sistemi di civil law.

[16] Principi Unidroit (2016) Art. 3.2.7. (Eccessivo squilibrio) (1) Una parte può annullare il contratto o una sua singola clausola se, al momento della sua conclusione, il contratto o la clausola attribuivano ingiustificatamente all’altra parte un vantaggio eccessivo. Si devono considerare, tra gli altri fattori, (a) il fatto che l’altra parte abbia tratto un ingiusto vantaggio dallo stato di dipendenza, da difficoltà economiche o da necessità immediate della prima parte, oppure dalla sua imperizia, ignoranza, inesperienza o mancanza di abilità a trattare, e (b) la natura e lo scopo del contratto. (2) Su richiesta della parte che ha diritto all’annullamento il giudice può adattare il contratto o le sue clausole in modo da renderlo conforme ai criteri ordinari di correttezza nel commercio. (3) Il giudice può adattare il contratto o le sue clausole anche a richiesta della controparte alla quale sia stato inviato l’avviso di annullamento, purché tale parte ne informi l’altra prontamente dopo aver ricevuto l’avviso e prima che quest’ultima abbia agito facendovi affidamento. Le disposizioni di cui all’articolo 3.2.10(2) (nella sostanza disponibilità della parte avverso cui è richiesto l’annullamento a modificare il contratto) si applicano con le opportune modifiche.

[17] Ma più che al giudice statale, che dovrebbe necessariamente applicare le eventuali norme imperative previste dall’ordinamento giuridico in cui egli opera, l’art. 3.2.7 sembra principalmente pensato per gli arbitri … .

[18] Nella pratica quest’ultimo caso riguarda principalmente contratti di appalto internazionali, in particolar modo ove l’appalto debba essere eseguito in uno Stato il cui ordinamento giuridico appaia all’appaltatore “occidentale” politicamente influenzato e teso a favorire l’appaltante locale prima e più che a favorire le dinamiche del commercio internazionale e l’appaltante locale, pubblico o privato che sia, possa imporre quale legge applicabile al contratto la propria legge nazionale.

[19] E qui molti autori fanno riferimento alle riforme del Codice Civile tedesco (2001) e di quello francese del 2016) o nella predisposizione ex novo dei Codici emanati dagli Stati che hanno da poco aderito all’Unione Europea.

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