RECENSIONI: GIOVANNI PASCUZZI “LA CULTURA DEI GIURISTI”

Per quanto possa apparire inusuale questa volta non recensisco un libro ma un post pubblicato su LinkedIn dal Prof. Giovanni Pascuzzi.

Frequentemente l’oggetto dei post del Prof. Pascuzzi è “eccentrico” (ma, sia ben chiaro, in questo caso l’uso del termine “eccentrico” vuole essere un complimento) rispetto a quello che, almeno nella mia esperienza, normalmente mi aspetterei da un accademico.

Ciò in quanto in questi post, come accade in quello che qui commento, le riflessioni dell’autore non riguardano qualche dotta dissertazione in relazione ad una determinata fattispecie giuridica o il commento ad una sentenza della Corte di Cassazione particolarmente rilevante.

Molti dei contributi del Prof. Pascuzzi, ma altrettanto vale anche per alcuni suoi libri, e cito per esempio “Giuristi si diventa. Come riconoscere e apprendere le abilità proprie delle professioni legali”, “Il problem solving nelle professioni legali” e “La creatività del giurista. Tecniche e strategie dell’innovazione giuridica[1], riflettono piuttosto sul ruolo, sulle caratteristiche e sulle abilità che il giurista oggi dovrebbe possedere, e, in effetti, almeno a mio modo di vedere, la creatività e il problem solving identificate dal Prof. Pascuzzi sono due caratteristiche che dovrebbero essere essenziali per il giurista di oggi, o che, quantomeno sono state per me essenziali nello sviluppo del mio percorso professionale.

L’inizio del post è dedicato ad un passo della redazione introduttiva, redatta da giuristi “di peso”, ad un convegno di settanta anni fa, che in estrema sintesi, constatava l’isolamento dei giuristi di allora e l’impermeabilità che le loro opere denunciavano rispetto ad altri settori della cultura per poi interrogarsi sull’infinità di Monografie e di riviste giuridiche pubblicate dai maggiori Editori giuridici giungendo alla conclusione che esse erano il segno di uno di uno specialismo sempre più fine a sé stesso, come confermato dalla propensione all’ermetismo del linguaggio giuridico.

Nel prosieguo del post il Prof. Pascuzzi ha proposto una serie di domande nella sostanza tutte riconducibili ad un unico interrogativo: che cosa è cambiato dopo settanta anni?

Per parte mia proverò a rispondere a due delle domande formulate dal Prof. Pascuzzi.

Premetto che, almeno dal mio punto di vista (mi autodenuncio fin da subito, io sono un pratico), tra i giuristi dovremmo ricomprendere non soltanto i pratici, i giudici e gli avvocati ma anche gli accademici, e probabilmente anche i giovani laureati in giurisprudenza.

Prima domanda. Il linguaggio dei giuristi e del diritto è ancora oscuro? Per rispondere bisogna prima farsi una ulteriore domanda. Oscuro per chi? Non per molti giuristi che lo utilizzano, un poco alla stregua di un linguaggio per iniziati, più o meno consciamente teso a dimostrare che “il diritto è “cosa nostra” e il modo con cui ci esprimiamo dimostra che noi sì conosciamo il diritto …”.

Per questi giuristi, e ce ne sono ancora tanti, l’”oscuro linguaggio del diritto” tutto sommato è rassicurante e confortevole, è quello che li accompagna dall’Università alla pensione e santifica la loro posizione di cultori del diritto, la cui conoscenza è forse qualcosa di cui intimamente compiacersi.

Di nuovo la domanda: oscuro per chi? Certamente oscuro per gli interlocutori non giuristi, ingegneri, esperti di marketing, informatici e via di seguito, insomma i cittadini, o i clienti, che interloquiscono con uno di questi giuristi, ma a volte un linguaggio oscuro anche per i pratici che vorrebbero poter coniugare il diritto con la soluzione dei problemi che di volta in volta devono affrontare.

Un esempio: quando io parlo con un interlocutore che non è un giurista (ma per la verità faccio lo stesso anche quando ne parlo con un collega o ne scrivo sui miei libri), riferendomi alle parti di un contratto utilizzo il termine “contraenti”.

In alcuni libri e articoli di diritto che mi è capitato di leggere ho visto gli autori utilizzare l’inclito termine “paciscenti”, il che, detto francamente, mi ha provocato sempre un certo qual senso di fastidio.

Cosa vuole dimostrare l’autore, che lui (o lei) è un vero giurista perché conosce il linguaggio specialistico del diritto? Fatti suoi. A me interessano i contenuti e l’utilità dello scritto che sto leggendo, non la autogratificante (per l’autore) leziosità del linguaggio usato.

E mi domando come reagirebbe un mio ipotetico interlocutore non giurista se gli rispondessi “Caro ingegnere, per rispondere alla sua domanda, dovremmo prima comprendere le motivazioni dell’altro paciscente”. Immagino che l’unico risultato sarebbe quello di provocare nell’interlocutore il ricordo dei tempi in cui frequentava il liceo per interrogarsi, alla stregua di Don Abbondio, “Paciscente, chi era costui?”.

Seconda domanda. Il moltiplicarsi delle iniziative editoriali è diventato sintomo di vitalità o continua a segnalare l’esistenza di una crisi? Anche in questo caso è necessaria una ulteriore domanda. A cosa serve, e a chi serve, il profluvio di pubblicazioni giuridiche e, per contro, qual è, o quale dovrebbe essere, il loro scopo?

Le ragioni sono presto dette, e per la verità credo di averle individuate in un contributo che avevo pubblicato ormai più di trenta anni fa su Contratto e Impresa, in risposta ad un precedente articolo del Prof. Zeno-Zencovich che, prendendo ad esempio una ipotetica monografia dedicata a “Responsabilità civile da abigeato”, lamentava il conseguente contributo delle Monografie giuridiche a fini concorsuali al disboscamento delle foreste dell’Amazzonia.

Non ricordo il titolo che in allora avevo proposto per il mio contributo, anche perché l’Editore lo cambiò d’imperio ed il mio scritto fu poi pubblicato con il titolo “La Rivolta del Lettore”[2]. Qui di seguito riporto alcuni brevi passi di quel mio contributo che mi sembra possano rispondano alla domanda del Prof. Pascuzzi:

Se l’Autore ha pubblicato la Monografia, acquisendo così Titoli per il Concorso e l’Editore ha venduto la Monografia incassandone il Prezzo, gli unici ad aver subito il danno sono dunque, oltre agli ambientalisti in lotta contro il disboscamento selvaggio, gli aspiranti lettori che dopo aver scorso alcune pagine della Monografia l’abbandonano per dedicare il proprio tempo a più fruttuose occupazioni.

Non è questo però l’unico danno. Il fenomeno …ha infatti ulteriori conseguenze, tutte di segno negativo. La proliferazione di Monografie a fini Concorsuali ha come effetto di saturare il mercato del libro giuridico, rendendo oltremodo difficile individuare, tra i tanti titoli pubblicati, quelli che effettivamente meriterebbero di essere letti ed in secondo luogo non incoraggia certo i possibili lettori all’acquisto di pubblicazioni giuridiche.

Il libro dovrebbe costituire uno strumento per instaurare una qualche forma di comunicazione tra l’autore ed i lettori: se gli vengono attribuiti fini diversi, rientranti esclusivamente nella sfera di interesse dell’autore stesso ed al più dell’editore, il rischio che si corre è il verificarsi di una netta separazione tra ciò che viene pubblicato e ciò che può essere di effettivo interesse per gli operatori del diritto. In tale situazione l’autore che intenda pubblicare un proprio scritto dovrebbe avere l’onesta intellettuale di domandarsi non soltanto “che senso ha” … ma anche “a cosa serve, a chi interessa?” e comportarsi di conseguenza”.

Mi sembra che queste considerazioni siano ancora valide. In particolare, almeno a mio parere, bisogna prendere atto che le grandi Case Editrici giuridiche in ultima analisi sono pur sempre imprese come le altre e come tutte hanno come primo obiettivo gli utili di fine anno.

E quindi, se mi si passa il paragone, senza voler sottacere le responsabilità di certi autori, per l’Editore il libro è un prodotto che esce da una catena di montaggio in continuo movimento e che deve raggiungere il budget di vendite assegnatogli (anche se naturalmente oggi nessuna Casa Editrice certo pubblicherebbe la Monografia “Responsabilità civile da abigeato”), che consente, dopo aver coperto i costi di produzione, di produrre un utile per gli azionisti.

Se questo è il presupposto, magari non l’unico ma quello predominante, temo che le iniziative editoriali continueranno a moltiplicarsi. Segno di vitalità o di crisi? Più semplicemente troppo spesso il sintomo di una divaricazione tra gli obiettivi delle Case Editrici giuridiche e le necessità dei potenziali lettori. E saranno dunque i lettori che, come trenta anni fa, dovranno di volta in volta valutare che cosa comprare e che cosa leggere.

Marco Bianchi© Riproduzione riservata – Settembre 2024

[1] I libri sono editi da Il Mulino e sono reperibili anche su Amazon. Vedi il sito web del Prof. Pascuzzi

[2] L’articolo è consultabile sul mio sito contrattiinternazionalidimarcobianchi.it .

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