E ADESSO ANCHE GLI INGLESI INIZIERANNO A DOVER NEGOZIARE I CONTRATTI IN BUONA FEDE? IL CASO YAM SENG V. INTERNATIONAL TRADE CORPORATION (2013)

Tradizionalmente  la questione dell’interpretazione del contratto rappresenta uno dei due elementi di maggior tensione tra i  sistemi giuridici di civil law dell’Europa continentale e il sistema di common law Inglese, ove all’interpretazione “soggettiva” propugnata dai primi, volta cioè ad interpretare il contratto in accordo con la comune intenzione delle parti, si contrappone l’interpretazione “oggettiva” propria della common law  Inglese, tesa piuttosto ad accertare il significato del disposto contrattuale sulla base di quanto  ragionevolmente dedotto dai termini contrattuali e del significato che ad essi verrebbe attribuito, alla luce delle circostanze del caso, da un ipotetico reasonable man.  Il secondo tradizionale terreno di scontro tra i due sistemi  è invece rappresentato dal principio della buona fede contrattuale, affermato nei sistemi di civil law, a cui il diritto Inglese ha storicamente opposto il principio del “caveat emptor” (compratore attento), sostenendo, per utilizzare le parole di una delle tante sentenze Inglesi, peraltro della House of Lords,  che tradizionalmente hanno negato l’esistenza di un simile obbligo, che il principio della buona fede è “ineherently repugnant to the adversarial position of the parties when involved in negotiations” e “unworkable in practice” (WALFORD  v. MILLFORD (1992)).

Eppure qualcosa si muove anche in Inghilterra (e se è per questo anche nelle altre nazioni di common law) e c’è già chi ipotizza che sia ormai prossimo in cui anche gli Inglesi saranno tenuti ad osservare dovranno negoziare “in good faith”.

Questo post è dedicato ad una recentissima sentenza della High Court inglese, YAM SENG V INTERNATIONAL TRADE CORPORATION del 1° febbraio 2013 (come tutte le sentenze Inglesi che cito, la trovate su bailii.com il cui link è indicato tra quelli elencati qui accanto).  I fatti di causa sono presto detti (e motivano il P.S. al fondo del post): la ITC (UK), affida alla Yam Seng (Singapore) la distribuzione nei duty free shops dei maggiori aeroporti asiatici di una linea di cosmetici con il marchio del mitico club calcistico inglese, il Manchester United. Il contratto di distribuzione, che consiste di sole 8 clausole, numerate da A a H, se lo scrivono e negoziano i boss delle due società, senza coinvolgimento di legal counsels. Nella clausola H i due businessmen pattuiscono la legge Inglese e la competenza dei Tribunali inglesi

Durante l’esecuzione del contratto ne accadono un po’ di tutti i colori, in quanto ITC fa promesse che sa di non poter mantenere, non riesce a fornire i cosmetici entro le date di consegna promesse e, scoprendo che economicamente non gli conviene, non mette neppure in produzione l’intera linea di cosmetici oggetto del contratto, peraltro rivelandolo con molto ritardo al distributore che nel frattempo aveva avviato, a sue spese,  una campagna di marketing e si era speso presso i suoi consolidati clienti per la fornitura della linea cosmetica nella sua interezza (in realtà si tratta di una elencazione meramente esaustiva dei peculiari comportamenti della ITC ……). Ovviamente alla fine Yam Seng perde la pazienza e fa causa alla IMT e, altrettanto ovviamente, il giudice Inglese condanna la ITC per “breach of contract”.

Ai fini di questo post interessa però soltanto la parte della sentenza (parr. 119-154) dove il giudice si interroga in merito all’esistenza di un “implied duty of good faith”. Semplificando, e iper-riassumendo, il giudice, pur dando atto della posizione della House of Lords di cui alla sentenza WALFORD  v. MILLFORD sopra citata, elabora le seguenti considerazioni:

  • nel continuare a rifiutare di ammettere l’esistenza  di una “general obligation of good faith”, i giudici Inglesi sembrerebbero “to be swimming against the tide” (e qui c’è un ampio riferimento a una serie di sentenze che hanno riconosciuto l’esistenza di un “duty of good faith” in altre nazioni di common law, Canada, Australia e Nuova Zelanda, senza dimenticare gli Usa, ove la sezione 1.203 dell’Uniform Commercial Code espressamente prevede che “every contract or duty within this Act imposes an obligation of good faith in its performance or enforcement”)
  • nell’interpretare un contratto bisogna certamente fare riferimento al suo contenuto (ma ciò non significa che accanto agli express terms contrattuali non vi siano anche degli implied terms (terms implied in fact / terms implied by law), ma anche al suo background che include non solo questioni di fatti noti ai contraenti, ma anche “shared values and norms of behaviour”, valori e norme di comportamento comunemente applicabili. Un esempio per tutto? “Honesty”, l’onestà, e qui ci scappa la citazione di un’altra sentenza della House of Lords “… in the absence of words which expressly refer to dishonesty, it goes without saying that underlying the contractual arrangements of the parties there will be a common assumption that the persons involved will behave honestly” (HIH Casualty v. CHASE MANHATTAN BANK (2003)).
  • La valutazione di che cosa debba intendersi per buona fede in relazione alla negoziazione ed alla esecuzione di un contratto deve essere fatta alla luce delle circostanze del caso, non tanto ricercando l’interpretazione datane dai singoli contraenti in relazione ai loro comportamenti, quanto piuttosto accertando se tali comportamento , alla luce delle circostanze del singolo caso, debbano considerarsi commercialmente inaccettabili “by reasonable and honest people” (e così si ritorna all’interpretazione “oggettiva”  propria del diritto Inglese…..)

Ipersemplificando il ragionamento del giudice è circolare: se nell’interpretare il contratto bisogna valutare i comportamenti delle parti anche alla luce di criteri quali l’onestà e la reasonableness come percepita da un ipotetico ordinary man non si capisce che problema ci sia nell’ammettere che un contratto debba essere eseguito in buona fede. In conclusione, ma è una mia conclusione, seguendo la tesi sostenuta in YAM SENG V INTERNATIONAL TRADE CORPORATION sembra quasi che la differenza tra la buona fede conosciuta dai sistemi di civil law e l’honesty / la reasonableness di common law potrebbe tradursi in una questione meramente semantica …

Tutte le sentenze Inglesi che cito in questo post la trovate su bailii.com il cui link è indicato tra quelli elencati qui accanto.

P.S. La vicenda ITC/YAM SENG dimostra una tesi di cui sono sempre stato convinto, ovvero che “prevenire è meglio che curare”, ovverosia che, quantomeno per i contratti internazionali, dall’Avvocato bisognerebbe andare nel momento in cui si redige e negozia il contratto, e non dopo, solo per litigare, quando ormai il disastro è già avvenuto. ll contratto di distribuzione ITC/YAM SENG? Che problema c’è, otto clausolette sono capaci tutti di scriverle, non c’è certo bisogno di avvocati ….

© riproduzione  riservata Marzo 2013

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