TECNICHE DI REDAZIONE E PREVENZIONE DELLE CONTROVERSIE NEI CONTRATTI INTERNAZIONALI (OVVERO DI UN CERTO QUAL “STRABISMO” DEI GIURISTI DI “CIVIL LAW”) (SECONDA PARTE)

Qui di seguito la seconda parte dell’articolo

3. UN APPROCCIO ALTERNATIVO: L’IDENTIFICAZIONE E L’UTILIZZAZIONE DI TECNICHE REDAZIONALI CHE CONSENTANO LA PREVENZIONE DELLE PATOLOGIE CONTRATTUALI

Tenuto conto di quanto sopra accennato, è possibile concludere che nella pratica dei contratti internazionali, ed in particolare in quelli di natura più complessa, assai sovente l’insorgere di una qualche patologia contrattuale è dunque causata, non tanto e non soltanto dall’inadempimento conclamato di una delle parti, quanto piuttosto dal fatto che i contraenti all’atto della negoziazione del contratto hanno mal disciplinato, o non hanno disciplinato del tutto, un qualche aspetto, anche essenziale, del rapporto imprenditoriale che intendevano eseguire.
Questa semplice constatazione, se condivisa, dovrebbe comportare un’ovvia conseguenza: nell’affrontare le tematiche proprie dei contratto internazionale non ci si dovrebbe limitare a concentrare la propria attenzione soltanto sulla questione della legge sostanziale applicabile al rapporto contrattuale che si intende porre in essere, per poi dibattere in merito al metodo più appropriato per porre rimedio ad eventuali controversie che dovessero verificarsi tra i contraenti.
Al contrario ci si dovrebbe pure interrogare in merito a quali siano i problemi ricorrenti propri della tipologia contrattuale che si è chiamati a disciplinare e cercare di proporre una disciplina pattizia che sia in grado di descrivere il flusso delle obbligazioni contrattuali che ognuno dei contraenti è tenuto ad assumere per assicurare l’ordinato svolgimento del contratto ed il raggiungimento degli obiettivi imprenditoriali che ognuna delle parti si aspetta dall’esecuzione del contratto.
Nel far ciò si dovrebbe pure tener conto delle peculiarità per così dire “merceologiche” del contratto, perché è pur vero che, per fare un esempio, torni industriali e capi di abbigliamento sono entrambi beni mobili, talché al relativo contratto di vendita internazionale si potrebbe applicare, in ipotesi, la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili: è peraltro altrettanto vero che per vendere, o per acquistare, torni industriali piuttosto che capi di abbigliamento le “procedure contrattuali” dovrebbero essere diverse.
Se è consentito banalizzare, almeno per certi versi, il ruolo del giurista che predispone il testo contrattuale, ci si dovrebbe rendere conto che la redazione di un qualsivoglia contratto internazionale implica ed impone in primo luogo la stesura di una procedura concordata tra i due “merchants”, per far sì che ognuno di essi possa auspicabilmente raggiungere il fine economico che si propone . Nel porsi il problema di come risolvere una ipotetica controversia che dovesse insorgere durante l’esecuzione del rapporto contrattuale, il redattore di un contratto internazionale, oltre ad interrogarsi in merito a quali debbano essere la legge regolatrice del contratto ed il metodo di risoluzione delle eventuali controversie, dovrebbe pertanto cercare di identificare all’interno della struttura contrattuale le situazioni di fatto e di diritto che potrebbero dar luogo a delle patologie del rapporto contrattuale e domandarsi se esista, nell’ambito dell’ autonomia contrattuale riservata alle parti, la possibilità di individuare (o di “inventare” a seconda dei casi) una soluzione “interna” al contratto, che, mediante l’ adozione di rimedi pattiziamente già individuati all’atto della sottoscrizione del contratto, consenta di porre rimedio alla situazione patologica verificatasi mediante l’ adozione, in tempi brevi e senza far ricorso a fonti esterne alla volontà espressa dei contraenti .
Peraltro neppure tale approccio è di per sé sufficiente (o quantomeno non è sempre sufficiente) ad assicurare l’ordinato svolgimento di un contratto internazionale Se è certamente corretto provvedere, “ab origine”, ad individuare nel testo contrattuale i rimedi alle potenziali patologie che possono caratterizzare una determinata tipologia contrattuale, è altrettanto vero che prevenire è meglio che rimediare. Tale riflessione comporta due ulteriori considerazioni: un primo modo per prevenire future controversie tra i partners è rappresentato dall’evitare di lasciare adito all’insorgere di patologie, predisponendo un testo contrattuale che, per quanto possibile, non si presti a difformi interpretazioni durante la sua esecuzione. In secondo luogo il redattore del testo contrattuale dovrebbe essere consapevole dell’opportunità di prevedere, a carico della controparte contrattuale, soltanto quelle obbligazioni che siano effettivamente necessarie per assicurare l’ordinato svolgimento del rapporto contrattuale, cercando di costruire una disciplina contrattuale il più possibile equilibrata e capace di motivare i contraenti ad una puntuale esecuzione del contratto.
Troppo spesso ci si imbatte infatti in contratti internazionali redatti in maniera inutilmente unilaterale, come se, per il giurista che lo predispone, la firma il contratto rappresentasse un risultato in sé e per sé, e non piuttosto un mezzo per assicurare il raggiungimento di un qualche obiettivo imprenditoriale, e lo scopo ultimo a cui tendere nella negoziazione del testo contrattuale fosse unicamente quello di “sconfiggere” la controparte, respingendone “a priori” qualsivoglia richiesta, anche quelle più ragionevoli o conformi alla prassi comunemente applicata. Ove fosse chiamato, al termine della negoziazione e dopo la sottoscrizione del contratto, a gestire il rapporto contrattuale l’operatore del diritto che avesse adottato un simile criterio “unilaterale” spesso finirebbe per rendersi conto che le limitazioni contrattuali imposte all’altro contraente. e le corrispettive esimenti di responsabilità pretese per la parte che si rappresenta (le une e le altre spesso redatte nella maniera più generale ed “assoluta” possibile) a nulla servono per assicurare l’ordinato svolgimento del rapporto commerciale che le imprese contraenti intendevano porre in essere e anzi risultano spesso controproducenti.
Una tale impostazione in realtà comporta un approccio meramente teorico al problema della redazione dei contratti internazionali in quanto sembra quasi considerare la firma del contratto alla stregua di un punto di arrivo e non già invece, come, in effetti, dovrebbe essere, il punto di partenza di una relazione commerciale che i contraenti devono ancora eseguire. Con ciò ovviamente non si intende sostenere che nel redigere un qualsivoglia testo contrattuale, ed in particolar modo il testo di un contratto internazionale, non si debba prestare attenzione ai possibili casi di patologia del rapporto contrattuale ed ai possibili rimedi, contrattuali o extracontrattuali, che la prassi dei contratti internazionali o le disposizioni della legge regolatrice del contratto mettono a disposizione delle parti contraenti. Più semplicemente occorrerebbe rendersi conto che il ruolo del giurista chiamato a redigere e negoziare un contratto internazionale presuppone (o quantomeno dovrebbe presupporre) la capacità di “interpretare” l’autonomia contrattuale riservata alle parti e di creare, ove necessario, una disciplina contrattuale del tutto originale e mirata, sempre nel rispetto delle eventuali norme imperative dettate dalla legge regolatrice del contratto, ad assicurare l’ordinato svolgimento dei rapporti commerciali che i “mercatores” hanno deciso di avviare .
Così facendo, fatta eccezione per il caso in cui insorga una controversia tra le parti contrattuali in conseguenza del volontario inadempimento di uno dei contraenti ad una qualsivoglia obbligazione contrattuale, verrebbero meno le premesse di una potenziale controversia internazionale e la clausola compromissoria finirebbe per ridursi, come tutti si auspicano all’ atto della stipulazione del contratto, ad una mera clausola di stile.

4. LE RAGIONI DELL’APPROCCIO TRADIZIONALE:  UN CERTO QUAL “STRABISMO” DEI GIURISTI DI “CIVIL LAW”?

Se quanto sopra sommariamente delineato può rappresentare un approccio corretto alla redazione di un contratto internazionale, occorre domandarsi se gli operatori del diritto chiamati ad occuparsi di contratti internazionali siano ideologicamente preparati ad assumere il ruolo di “interpreti” dell’autonomia contrattuale richiesto dalla prassi dei contratti internazionali.
Per molti versi credo che, in particolar modo nei paesi di civil law, ed in Italia in particolare, i giuristi abbiamo finito per considerare il contratto come un fatto esclusivamente giuridico, qualcosa di troppo serio, di troppo importante per lasciarlo nelle mani, o. in certi casi anche solo per condividerlo, con gli imprenditori e gli uomini che gestiscono il “business” .
Così facendo i giuristi troppo spesso finiscono per attribuirsi, più o meno consapevolmente, un ruolo di interpreti esclusivi, quasi di “sacerdoti” del contratto, sovente cercando non già di adattare il testo contrattuale agli scopi imprenditoriali a cui era destinato, quanto di fare il contrario, comprimendo, o banalizzando, i contenuti più prettamente imprenditoriali, (che, obiettivamente ed ad onor del vero, non sono sempre di immediata comprensione per un giurista) per poter ricondurre il rapporto contrattuale a categorie giuridiche ampiamente note al giurista ed “esterne” al rapporto contrattuale ed alla sfera di influenza dei “mercanti”. Così facendo spesso si finisce per non cogliere le peculiarità proprie del singolo tipo contrattuale e si tradisce l’esigenza di assicurare al contratto quel ruolo di “procedura tra merchants” di cui si è accennato più sopra.
Con un tale atteggiamento l’operatore del diritto finisce cioè per dimenticare una fondamentale verità, ovverosia che il contratto, prima ancora di essere un fatto giuridico, rappresenta uno strumento di tecnica mercantile: nell’affrontare la predisposizione di un testo contrattuale, ed in particolar modo il testo di un contratto internazionale, occorrerebbe porsi come obiettivo non tanto e non soltanto di preparare un “lawyers’ contract”, ma anche e soprattutto un “merchants’ contract”. Nella realtà, la tendenza dominante, in specie in Italia, sembra essere del tutto opposta: quasi sempre l’operatore del diritto tende, più o meno consciamente, a ricercare le soluzioni al di fuori del contratto, alla ricerca di un sistema di norme capace di assicurare al giurista un ruolo privilegiato (e per certi versi più confortevole), ma per molti versi riduttivo, di mero “interprete” del diritto prima e più che della fattispecie imprenditoriale che è sottesa il contratto.
Si è accennato in precedenza al favore con cui la dottrina guarda a tutte quelle iniziative che sembrano andare nel senso di dare una giuridica concretezza al concetto di “lex mercatoria”, così da superare la asserita inadeguatezza delle norme di diritto interno e pervenire al fine alla creazione di un sistema di norme transnazionali finalmente in grado di offrire un quadro giuridico attendibile ed affidabile al commercio internazionale.
L’interesse ed il favore per tali iniziative è certamente condivisibile. Nondimeno l’entusiasmo, per certi versi “unidirezionale”, a volte dimostrato dai giuristi di civil law non è esente da critiche. Non si può infatti non osservare come i Principi Unidroit sui contratti commerciali internazionali piuttosto che i Principi di diritto europeo dei contratti, al pari di tutti quelli strumenti di soft law, destinati, nelle aspirazioni dei redattori a dare giuridica concretezza alla “lex mercatoria” (ma analogo ragionamento può essere applicato, per esempio, al ruolo giocato in questi ultimi anni dalla Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili) svolgano una funzione meramente suppletiva rispetto ai singoli contratti internazionali conclusi dai “mercatores”, destinati come sono ad interpretare ed integrare quanto previsto (o meglio quanto non previsto) dal testo contrattuale.
Ciò comporta che la pratica efficacia e l’effettivo ruolo svolto dalle convenzioni di diritto uniforme quali la Convenzione di Vienna piuttosto che dalle raccolte dei principi di diritto contrattuale internazionale sia nella realtà inversamente proporzionale alla adeguatezza del testo originario del contratto internazionale che in ipotesi esse siano chiamate ad integrare: non è un caso che il riferimento alla “lex mercatoria”, più che nella prassi dei contratti internazionali, sia più frequente negli arbitrati internazionali, allorquando gli arbitri, normalmente dei giuristi, si trovino nella necessità di supplire alle insufficienze del contratto per cui è insorta la controversia piuttosto che alla inadeguatezza delle norme di diritto interno in ipotesi applicabili al rapporto contrattuale.
Viene quasi spontaneo domandarsi perché i giuristi Italiani, di fronte al dilemma offerto dalla pagina ancora bianca, destinata a raccogliere il testo del contratto internazionale ancora da creare, si ritrovino spesso affetti da una sorta di “strabismo giuridico” che li spinge a distogliere lo sguardo dal testo dei contratti internazionali, per rivolgere esclusiva attenzione a quegli strumenti meta-contrattuali destinati a supplire alle lacune del testo contrattuale. Sarebbe forse auspicabile un diverso atteggiamento, teso (anche) ad identificare i metodi e le soluzioni che meglio consentono di evitare, per quanto possibile, che nel testo contrattuale vi siano lacune da colmare durante la fase di esecuzione del contratto.
Se si ammette che, quantomeno ad oggi, il ruolo giocato nella pratica quotidiana dei commerci internazionali dalla “lex mercatoria” è purtuttavia limitato (che fortunatamente la “patologia” del contratto è ancora l’eccezione e non già la regola), e semprechè si condivida quanto detto in precedenza in merito alla necessità per il giurista di perseguire l’intento di predisporre un “merchant’s contract”, capace cioè di garantire il raggiungimento degli obiettivi imprenditoriali che il rapporto contrattuale si prefigge, non si comprende perché tra i giuristi Italiani, e più in generale di civil law, che pure con tanta passione alimentano il dibattito sul ruolo della “lex mercatoria”, non venga prestata altrettanta attenzione alle possibili tecniche di redazione dei contratti internazionali ed alla raccolta ed allo studio delle soluzioni contrattuali che vengono proposte dalla pratica dei contratti internazionali. Se si fa eccezione per i lavori del Gruppo di Lavoro sui Contratti Internazionali, presieduto per lungo tempo da Marcel Fontaine, ed oggi da Filip De Ly, che ha tenacemente perseguito l’intento di collazionare le clausole contrattuali rinvenienti dai contratti internazionali, e di approfondirne lo studio, non si può non concordare con chi constata, e non a caso è proprio Filip De Ly, a farlo la mancata attenzione alla pratica dei contratti internazionali ed al suo studio piuttosto che all’insegnamento delle tecniche di redazione contrattuali .
Viene quindi da domandarsi se non sia quindi auspicabile che i cultori (e i pratici, perché no?) del diritto dei contratti internazionali, pur senza abbandonare o ridurre in alcun modo l’impegno dedicato alla costruzione di una vera “lex mercatoria” capace di porre un qualche rimedio alle incertezze ed alle inadeguatezze che oggi ancora affliggono il quadro giuridico di riferimento dei contratti internazionali, non inizino a porre altrettanto impegno nel raccogliere, organizzare e diffondere le “best practices” e le soluzioni originali create nella prassi contrattuale internazionale.

© riproduzione riservata Marzo 2013

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