TECNICHE DI REDAZIONE E PREVENZIONE DELLE CONTROVERSIE NEI CONTRATTI INTERNAZIONALI (OVVERO DI UN CERTO QUAL “STRABISMO” DEI GIURISTI DI “CIVIL LAW”) (Prima parte)

Qui sotto la prima parte di un articolo che ho pubblicato più di dieci anni fa su una Rivista Giuridica. Nonostante il tempo trascorso ritengo che le considerazioni allora proposte siano tuttora valide e ripropongo qui una nuova versione di quell’articolo.

1.  Un approccio tradizionale alla questione della tutela degli interessi delle parti nei contratti internazionali: dall’individuazione della legge regolatrice del contratto alla scelta del metodo di risoluzione delle controversie

 

Nel predisporre un contratto internazionale il redattore del testo si trova sempre nella necessità di valutare quale strumento adottare per tutelarsi nel caso in cui, durante l’esecuzione del rapporto contrattuale, insorga una qualche controversia tra i contraenti. Tra i giuristi italiani l’atteggiamento più comune in tali casi è quello di sottolineare l’importanza di identificare, in apposite clausole contrattuali, la legge sostanziale che disciplina il contratto e l’ organo chiamato a risolvere, sulla base delle disposizioni di tale legge (nonché, qualora i contraenti, come talvolta accade, abbiano scelto una legge “terza” rispetto a quella della Nazione ove il contratto deve essere eseguito, delle eventuali disposizioni di natura non derogabile comunque applicabili in tale Nazione alla specifica tipologia contrattuale posta in essere), le  controversie che dovessero eventualmente insorgere tra le parti durante l’ esecuzione del rapporto contrattuale.

Quale che sia la legge nazionale applicabile alla specifica fattispecie contrattuale, una prima domanda che qui ci si potrebbe porre è relativa alla possibilità che delle mere norme di diritto interno siano effettivamente in grado di disciplinare compiutamente relazioni giuridiche ed economiche di carattere internazionale, instaurate tra soggetti appartenenti a sistemi giuridici differenti, avendo essi la propria sede d’affari in Stati diversi.

A ben guardare la risposta sembrerebbe essere negativa, tanto avuto riguardo alle posizioni assunte dalla pratica che a quelle della dottrina. Infatti nella pratica i contratti internazionali tendono sempre più ad essere dei “self-regulatory agreements”, nel tentativo, neppure troppo dissimulato, di offrire una specifica  disciplina del rapporto contrattuale che si intende porre in essere, alternativa ed autonoma rispetto a quella del diritto interno nell’ambito del quale il contratto internazionale è peraltro comunque tenuto ad operare, Ciò ha fatto sì che l’”autonomia” perseguita nella prassi dei contratti internazionali sia stata acutamente definita come una  “autonomia di natura paradossale”[1]: il paradosso sarebbe infatti causato dal tentativo dei pratici di svincolarsi del tutto dalle norme di diritto interno, nella sostanza inadeguate a cogliere le complessità del commercio internazionale, attraverso una disciplina contrattuale il più possibile dettagliata, al fine di creare un contratto, per così dire, “auto-regolamentato” ed “autogestito” dalle parti. Un tale tentativo sarebbe peraltro destinato ad essere frustrato dall’impossibilità di creare un simile contratto senza utilizzare delle categorie e delle soluzioni giuridiche in precedenza codificate dal diritto nazionale applicabile al contratto (vuoi per scelta delle parti piuttosto che in applicazione delle norme di d.i.p.).

In realtà anche nella dottrina appare ben diffusa la consapevolezza della potenziale inadeguatezza delle norme di diritto interno. Senza entrare nel merito del costante dibattito in merito al ruolo svolto, o che potrebbe svolgere la “lex mercatoria” (intesa, per citare soltanto due delle possibili definizioni offerte dalla dottrina, peraltro rappresentative della diversa ampiezza con cui il concetto di lex mercatoria viene pure interpretato dalla dottrina stessa, come un“diritto creato dal ceto imprenditoriale, senza la mediazione del potere legislativo degli Stati e formato da regole destinate a disciplinare in modo uniforme, al di là delle  unità politiche degli Stati, i rapporti commerciali che si instaurano entro l’unità economica dei mercati[2]  piuttosto che come “quel corpo di regole ed istituti concernenti il commercio internazionale comunemente applicata dai mercatores nella consapevolezza che si tratti di regole di diritto o, almeno, che gli altri contraenti si comporterebbero osservando le stesse regole[3]), basti qui ricordare l’estremo interesse ed il risalto che la dottrina ha dedicato, e continua a dedicare, a quelle iniziative che sembravano sostanziare e dare vita all’idea della “lex mercatoria”, dalle convenzioni internazionali di diritto uniforme, quali la Convenzione di Vienna sulla vendita internazionale di beni mobili, ai tentativi di codificare in maniera sistematica la “law merchant”, a partire in primo luogo dai Principi Unidroit sui contratti commerciali internazionali e, almeno per certi versi, visto l’intento di armonizzazione transnazionale che li contraddistingue, i “Principles on European Contract Law predisposti e pubblicati dalla Commissione per un diritto contrattuale Europeo (“Commissione Lando”) nel 1995 e nel 2000, ed il progetto di codice civile europeo dello Study Group on an European Civil Code, chiamato a proseguire l’opera della Commissione Lando, piuttosto che il Code Européen des Contrats, redatto dalla Accademia dei Giusprivatisti Europei.

L’ incertezza in merito al quadro normativo di riferimento all’interno del quale collocare i contratti internazionali, l’inadeguatezza delle norme di diritto interno e la distanza che ancora sussiste tra l’intuizione della centralità che una lex mercatoria transnazionale potrebbe avere per semplificare e garantire certezza del diritto ai rapporti commerciali internazionali e la costituzione di un “corpus juris” che sostanzi la tanto auspicata “law merchant”, probabilmente giustificano il fatto che i giuristi italiani, ed in particolar modo la dottrina, nell’affrontare le problematiche proprie dei contratti internazionali, dopo aver assunto come punto di partenza la questione della legge regolatrice dei contratti internazionali (o meglio di come meglio individuare  il “corpus juris” con cui il contratto internazionale deve confrontarsi), usualmente focalizzino poi la loro attenzione sulla scelta del metodo più appropriato per risolvere le eventuali controversie che dovessero insorgere tra le parti contraenti durante l’esecuzione del contratto.

Fino ad alcuni anni or sono, nel redigere un contratto internazionale, l’ alternativa ricorrente in tale situazione era, ovviamente, quella tra il ricorrere alla tutela giudiziaria ordinaria piuttosto che all’ arbitrato, anche se probabilmente quest’ultimo godeva di un maggior favore da parte dei redattori di contratti internazionali, tra l’ altro sulla base dell’ assunto, non sempre dimostrato o dimostrabile, che un collegio arbitrale fosse in grado di meglio cogliere gli aspetti peculiari di un rapporto contrattuale internazionale. Per contro, negli anni più recenti, dapprima nei sistemi giuridici anglo-sassoni e poi anche in quelli di civil law, si è fatto sempre più riferimento a strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, quali la mediazione o la conciliazione, genericamente ricompresi nel termine ADR, Alternative Dispute Resolution, strumenti che sono stati via via introdotti con sempre maggior frequenza anche nei contratti internazionali.

Le tecniche di Alternative Dispute Resolution comportano, al pari dell’arbitrato o del procedimento avviato dinanzi ai tribunali ordinari, il coinvolgimento di una terza parte. Ai fini di questo scritto è tuttavia opportuno sottolineare che nell’ADR il compito di tale parte, più che di giudicare, alla luce della legge applicabile al contratto, in merito alla fondatezza giuridica delle pretese dell’ una o dell’ altra parte, è piuttosto quello di favorire la transazione della controversia insorta tra i contraenti, ricercando una soluzione capace di soddisfare le esigenze di entrambe le parti, così da risolvere sul nascere il dissidio insorto, evitando i tempi ed i costi di un procedimento arbitrale o di una causa giudiziale.

2.         (In)adeguatezza dell’approccio tradizionale?

Quale che sia il metodo prescelto per risolvere la controversia insorta tra i contraenti, è però necessario rendersi conto che la mera previsione del ricorso all’ arbitrato, ai tribunali ordinari, o alle tecniche di ADR, non rappresenta una vera soluzione ai potenziali problemi che si possono verificare durante l’ esecuzione del contratto, ed in particolare modo di un contratto internazionale, e che l’ operatore del diritto non può limitarsi a focalizzare la propria attenzione esclusivamente sull’ identificazione della legge regolatrice del contratto e sulle modalità di risoluzione delle eventuali controversie che possano insorgere durante l’esecuzione di un contratto internazionale..

Ciò in quanto, a ben guardare, la necessità di ricorrere ad una tutela, quale che essa sia, esterna alla volontà dei contraenti, causata da una qualche patologia del rapporto contrattuale, rappresenta molto spesso la certificazione del (quasi certo) fallimento degli obiettivi imprenditoriali che l’uno o l’altro dei contraenti, o entrambi, si erano prefissati di raggiungere attraverso la sottoscrizione del contratto.  Infatti in questo caso non soltanto il contraente che avvia la controversia non raggiunge il risultato che si attendeva all’ atto della stipula del contratto, ovvero non raggiunge gli scopi  economici ed imprenditoriali che si proponeva all’atto della conclusione del contratto (o perlomeno non nei tempi attesi, qualora sia possibile ottenere giudizialmente, oltreché il risarcimento del danno, l’esecuzione delle obbligazioni contrattuali disattese dalla controparte) ma entrambe le parti devono dedicare alla controversia, distogliendole dall’ attività imprenditoriale da esse svolta, risorse, umane e finanziarie, che potrebbero essere meglio impiegate per raggiungere gli obiettivi dell’ azienda.

A ciò si aggiunga che, almeno nei contratti internazionali, ed in particolar modo nei contratti internazionali di lunga durata, quali possono essere, ad esempio, i contratti di joint venture o di trasferimento di tecnologia, che comunque presuppongono una continua collaborazione tra i partners, sono relativamente rari i casi in cui la controversia venga avviata per porre rimedio ad un inadempimento palese e conclamato di una delle parti. Al contrario molto più spesso la “litigation” si fonda su una difforme interpretazione data dai contraenti, sovente entrambi in buona fede, ad un qualche passo contrattuale non sufficientemente chiaro, o sulle aspettative di una delle parti in relazione ad una qualche circostanza non disciplinata dal contratto, oppure ancora sul tentativo di uno dei contraenti di riequilibrare, sfruttando le lacune o le ambiguità del testo contrattuale, un rapporto che era stato viziato in origine da un grave squilibrio nelle prestazioni delle parti così come originariamente identificate nel testo contrattuale sottoscritto.

In questi casi, il terzo chiamato a dirimere la questione, sia esso un Giudice o un Arbitro o un esperto in ADR, più che ad accertare l’inadempimento di uno dei contraenti è in realtà sovente chiamato a porre rimedio ad una qualche lacuna contrattuale già esistente all’ atto della sottoscrizioni delle pattuizioni originarie. Una tale considerazione può certamente contribuire a spiegare il recente diffondersi a livello internazionale dei metodi di Alternative Dispute Resolution, di cui prima si accennava, a scapito dell’Arbitrato o del ricorso alla giurisdizione ordinaria. Come si è sopra accennato, i metodi di ADR hanno infatti come scopo precipuo non tanto e non soltanto l’individuazione dei principi giuridici e delle norme di diritto applicabile che consentano di allocare tra i contraenti la “colpa”  dell’ insuccesso contrattuale, quanto piuttosto la ricerca di un compromesso, capace di riequilibrare il rapporto contrattuale ed identificare quelle soluzioni che, ponendo rimedio alle inadeguatezze del testo contrattuale, consentano di assicurare ad entrambi i contraenti il raggiungimento degli obiettivi originariamente da ognuno di essi attribuiti al contratto a suo tempo stipulato, e, in ultima analisi la prosecuzione del rapporto contrattuale.

 

  1. Un approccio alternativo: l’identificazione e l’utilizzazione di tecniche redazionali che consentano la prevenzione delle patologie contrattuali

 

Tenuto conto di quanto sopra accennato, è possibile concludere che nella pratica dei contratti internazionali, ed in particolare in quelli di natura più complessa, assai sovente l’insorgere di una qualche patologia contrattuale è dunque causata, non tanto e non soltanto dall’inadempimento conclamato di una delle parti, quanto piuttosto dal fatto che i contraenti all’atto della negoziazione del contratto hanno mal disciplinato, o non hanno disciplinato del tutto, un qualche aspetto, anche essenziale, del rapporto imprenditoriale che intendevano eseguire.

Questa semplice constatazione, se condivisa, dovrebbe comportare un’ovvia conseguenza: ……. CONTINUA NELLA SECONDA PARTE……………………………….

[1] Così Filip De Ly in Fontaine, De Ly “Droit des contrats internationaux – Analyse et redaction de clauses », Seconda Edizione, Parigi, 2003, pag 676.

[2] Galgano, “Lex Mercatoria”, pag. 238.

[3] Frignani in “Il Contratto Internazionale”, Padova, 1990, 14,

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