LA RELAZIONE DELLA COMMISSIONE UE DEL 10 MAGGIO 2017 SULL’INDAGINE SUL COMMERCIO ELETTRONICO E IL SUO POSSIBILE IMPATTO SUI CONTRATTI DI CONCESSIONE E SULLE VENDITE ONLINE

Il 10 Maggio 2017 è stata pubblicata la Relazione finale, accompagnata dal relativo “Commission Staff Working Document” sull’indagine settoriale sul commercio elettronico avviata dalla Commissione il 6 maggio 2015. Nel quadro dell’indagine, che ha riguardato tanto la distribuzione di beni quanto la licenza di contenuti digitali, la Commissione ha ricevuto 1453 risposte (e con esse migliaia di contratti sottoscritti tra produttori e distributori o tra proprietari di digital contents e licenziatari) ai questionari da essa precedentemente distribuiti rispettivamente a concessionari, concedenti / manufacturer, piattaforme dì vendita on line, gestori di software per la comparazione dei prezzi di vendita al pubblico e società di gestione dei servizi di pagamento online.

In relazione alla distribuzione di beni, di cui mi occupo in questo post, lo scopo dell’indagine era quello di esaminare i modelli distributivi esistenti, distribuzione esclusiva e selettiva, e le relative disposizioni contrattuali che limitano i diritti di distributori “(i) to sell cross-border within the EU, (ii) to sell on marketplaces, (iii) to use price comparison tools, and (iv) to set the retail price freely. Such provisions may restrict competition and may lead to the partitioning of the internal market in breach of the EU competition rules” (par.38 Staff Working Document).

La Relazione della Commissione esplicita, seppur con molte riserve e cautele, una serie di orientamenti in merito ad una serie di questioni non banali, prima fra tutte quella relativa alle vendite sui c.d. marketplace virtuali (i.e. le piattaforme di vendita on-line come Amazon e E-bay). Per chi abbia la pazienza di leggerlo e meditarlo (298 pagine, disponibile solo in inglese ……) è pure interessante lo Staff Working Document, non solo per i giuristi che vi trovano con maggior dettaglio quanto detto nella Relazione, ma anche per i marketing manager che possano ritrovarvi una analisi approfondita della situazione e delle tendenze dei sistemi distributivi all’interno della UE.

Riassumo qui di seguito le conclusioni della Relazione. Anticipo però fin da subito che la Relazione (par.74) precisa che non è necessario rivedere l’attuale Regolamento UE 330/2010 che rimarrà quindi in vigore fino alla sua naturale scadenza (Maggio 2022).

1. L’aumentata diffusione dei sistemi di distribuzione selettiva

La diffusione dei sistemi di distribuzione selettiva, che consentono al preponente di imporre ai propri distributori l’obbligo di rispettare determinati criteri qualitativi fissati a priori dal preponente / manufacturer, è aumentata rispetto al passato, estendendosi anche a settori merceologici diversi da quelli tradizionali (fashion, luxury ed elettronica di alta gamma). Tra le ragioni (par. 234 Staff Working Document) sembrano prevalere la volontà dei preponenti / manufacturer di preservare l’immagine e la reputazione del proprio brand e di evitare, o quantomeno ridurre, il c.d. “free riding” dei canali di vendita on-line che altrimenti si avvantaggerebbero degli investimenti effettuati dai distributori tradizionali (“bricks and mortar shops”).
Dalle risultanze dell’indagine emerge come ciò comporti sempre di più l’adozione da parte dei preponenti/manufacturer di due distinti set di criteri, rispettivamente dedicati alle vendite online e a quelle offline (par.241 Staff Working Document).

2. Raccomandazioni / restrizioni al concessionario per i prezzi di rivendita

Come noto, una delle restrizioni fondamentali vietate dall’art 4 del Regolamento 330/2010 riguarda le c.d. pratiche di Resale Price Maintenance, con cui il preponente / manufacturer impone al concessionario, direttamente o indirettamente, il prezzo di rivendita dei prodotti oggetto del mandato conferito.

Su questo punto la Relazione naturalmente conferma quanto previsto dal Regolamento, dando peraltro atto che molte delle risposte ricevute criticano le norme UE in tema di doppia tariffazione (“Ai produttori è di norma vietato chiedere prezzi all’ingrosso diversi per gli stessi prodotti allo stesso dettagliante (dettagliante ibrido) a seconda che i prodotti siano destinati ad essere venduti online o offline ”). (par.34 Relazione).

La motivazione di tali critiche si basa sul fatto che consentire ai preponenti / manufacturer di praticare prezzi diversi a seconda che i prodotti siano venduti online, su internet, piuttosto che offline, e quindi nel negozio piuttosto che nello show room del concessionario, consentirebbe di riequilibrare il rapporto tra i concessionari che operano attraverso bricks and mortar shops e quelli che realizzano invece gran parte del loro fatturato online, con investimenti e costi di gran lunga inferiori a quelli sopportati dai concessionari offline. Qui la Relazione sembra fare un’apertura, che peraltro, come spiegherò meglio più sotto, nella pratica non mi sembra di grande aiuto per i preponenti / manufacturer, in quanto ammette “la possibilità di esonerare gli accordi in materia di doppia tariffazione a norma dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE su base individuale, ad esempio qualora l’accordo sia necessario per contrastare il parassitismo (quello dei venditori offline che indirettamente sfruttano senza alcun onere gli investimenti fatti dai concessionari off-line) (par. 37 Relazione)

3. Restrizioni delle vendite su marketplace on-line

Mi sono già occupato della questione in un precedente post, dedicato al caso “Coty de France” attualmente pendente dinanzi alla Corte di Giustizia e pure menzionato nella Relazione” (IL REG. 330/2010 UE IN TEMA DI ACCORDI VERTICALI E CONTRATTI DI CONCESSIONE: LE PARFUMERIE AKZENTE (E IL BUNDESKARTELLAMT…) ALL’ATTACCO DELLA DISTRIBUZIONE SELETTIVA? I CONCESSIONARI (SELETTIVI) POSSONO VENDERE SU AMAZON, E-BAY ECC.? ALLA CORTE DI GIUSTIZIA UE LA RISPOSTA.).  Per inciso ricordo che le vendite online effettuate dai concessionari sui marketplace  preoccupano molto i preponenti / manufacturer in quanto alto è il numero di prodotti contraffatti venduti online (e si vedano a tal proposito i commenti trasmessi alla Commissione dalla Camera della Moda Italiana e da Assonime).

Qui c’è la prima sorpresa, almeno per me, in quanto ai parr. 41-42 della Relazione si legge che “i risultati indicano che il divieto di vendere su un marketplace (per intenderci Amazon o E-bay) generalmente non costituisce de facto un divieto di vendita online o non limita l’uso effettivo di internet come canale di vendita, e ciò a prescindere dai mercati interessati.” con la conseguenza che “i risultati dell’indagine settoriale indicano che i divieti (assoluti) di vendita tramite marketplace non sono considerati restrizioni fondamentali ai sensi dell’articolo 4, lettere b), e c), del regolamento di esenzione”.

A maggior chiarimento può essere opportuno citare il par.509 dello Staff Working Document secondo cui le restrizioni delle vendite sui marketplace imposte ai concessionari in realtà non limitano dove e a chi i concessionari possano vendere i prodotti per cui hanno ricevuto il mandato, (in quanto i concessionari possono comunque effettuare vendite (attive e passive nel caso della distribuzione selettiva). Nei successivi parr.510-511 non manca pero il caveat “(510) This does however not mean that the Commission considers marketplace bans in all cases compatible with European competition law.(511) The Commission or a National Competition Authority may decide to scrutinise marketplace bans in agreements that fall outside the application of the VBER, either because the market share thresholds in Article 3 VBER are exceeded or because the agreements contain any of the listed hardcore restrictions in Article 4 of the VBER.”.

Il combinato disposto dei due paragrafi sembrerebbe quasi suggerire che ove il contratto stipulato tra il preponente / manufacturer e il concessionario rispecchi i requisiti per l’esenzione prevista dal Reg.330/2010 (quote di mercato e assenza di altre restrizioni fondamentali ex art.4 del Regolamento) i marketplace bans non costituiscono una restrizione fondamentale incompatibile con il Reg. 330/2010. Forse. O forse no, considerato che tanto lo Staff Working Document nel capitolo finale dedicato ai “Key Findings” dell’indagine e la stessa Relazione aggiungono una ulteriore identica precisazione “The Commission or a National Competition Authority may also decide to withdraw the benefit of the VBER if in a particular case the marketplace bans restrict competition within the meaning of Article 101(1) TFEU and are incompatible with Article 101(3) TFEU. (Par. 982 Staff Working Document) e “Ciò non significa che i divieti assoluti di vendita tramite marketplace siano generalmente compatibili con le norme UE in materia di concorrenza. La Commissione o un’autorità nazionale garante della concorrenza può decidere di revocare l’esenzione di cui al Regolamento di esenzione in casi particolari e se la situazione del mercato lo giustifica” (par. 43 Relazione).

Estremizzando e tradotto in parole più semplici, la Commissione sembra dirci “il divieto imposto dal preponente al concessionario di vendere su un marketplace online è compatibile con le norme UE in materia di concorrenza a meno che la Commissione UE, o una autorità Antitrust nazionale decidano altrimenti”, che come “Guidance” per le imprese non sembra granché, anche considerato il tempo e le risorse impiegate dalla Commissione per portare a termine l’indagine. Resta solo da sperare che la decisione della Corte di Giustizia nel caso “Coty de France” ci fornisca ulteriori e univoche indicazioni in rito.

4. Geoblocchi per le vendite internet e comparazione dei prezzi di vendita dei medesimi prodotti

Restano ancora da illustrar aspetti esaminati dall’indagine. Il primo è quello dei c.d. geoblocchi, ovverosia di quei software che nelle vendite via internet permettono di identificare il luogo di stabilimento del cliente che si è collegato ad un dato sito web, così da consentire al titolare del sito di rifiutare la consegna dei prodotti in altri Stati UE o di accettare sistemi di pagamento esteri o ancora di reindirizzare il potenziale cliente ad altri siti che operano ove tale cliente ha la sua sede.

Contrariamente a quel che ci si poteva aspettare, l’indagine ha evidenziato che i primi a utilizzare i geoblocchi sono i concessionari. Da qui la ovvia conclusione che “Le misure di geoblocco basate su decisioni unilaterali di imprese che non detengono una posizione dominante non rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 101 del TFUE, mentre le misure di geoblocco basate su accordi o pratiche concordate tra imprese distinte possono essere coperte dall’articolo 101 del TFUE” (par. 48 Relazione). In altre parole il preponente / manufacturer non può imporre sistemi di geoblocco ai suoi concessionari, ma se questi unilateralmente decidono di utilizzarli non c’è problema. La seconda questione riguarda i software che consentano di comparare i prezzi disponibili in rete per singoli prodotti o linee di prodotto. Qui l’indicazione è semplice (parr. 551 e 553 dello Staff Working Document). I divieti assoluti non sono ammessi, quelli che invece si limitano a indicare criteri qualitativi per l’utilizzo di “price comparison” lo sono.

5. Conclusioni e commenti

Quali conclusioni tratte dai risultati dell’indagine della Commissione? Intanto che il Reg. UE 330/2010 è un po’ invecchiato. Quando venne emanato, la sua principale novità era quella di favorire vieppiù le possibilità per i concessionari di vendere online. A distanza di alcuni anni il Regolamento fatica a stare al passo con l’evoluzione del commercio online. La Commissione registra tali cambiamenti, e pensiamo alle vendite fatte dai concessionari su piattaforme online, i marketplace, piuttosto che alla acquisita consapevolezza che nei sistemi di distribuzione selettiva il divieto per il preponente di imporre un diverso prezzo di vendita per le vendite online e per quelle offline ha il difetto di far sì che siano solo i concessionari “offline” a dover sopportar investimenti e costi a tutto vantaggio dei soli concessionari offline (il c.d. parassitismo o, in inglese “free riding”).
Il problema è che anche quando la Commissione sembra far delle aperture, come nel caso del divieto di vendita sui marketplace o in relazione alla possibilità di ammettere accordi in materia di doppia tariffazione a norma dell’articolo 101, paragrafo 3, del TFUE su base individuale, ove tali accordi siano necessari per contrastare il parassitismo, si tratta sempre di aperture condizionate, dei “SI, MA”, e la decisione di far valere il “MA” in questo caso spetta, a posteriori, sempre e solo alla Commissione e alle autorità antitrust nazionali. Ovviamente questa sorta di “spada di damocle” non giova alle imprese che devono auto-valutare gli impatti delle previsioni contrattuali da inserire nei contratti con i concessionari della Unione Europea.
© Marco Bianchi – Riproduzione riservata – Maggio 2017

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