LA LEGGE REGOLATRICE DI UN CONTRATTO INTERNAZIONALE? “la legge italiana … appare nella maggior parte dei casi preferibile per il preponente italiano…”. O NO?

Prima di ogni altra cosa premetto che il virgolettato riportato nel titolo, e di cui più compiutamente dirò appresso, non è mio ma è tratto da un testo che ho trovato in rete utilizzando come chiave di ricerca “contratti internazionali modelli”.

Che fosse comunque utile dedicare qualche considerazione alla questione della scelta della legge applicabile ai contratti internazionali me ne ero reso conto alcuni mesi fa, quasi alla fine di una conferenza dedicata ai contratti internazionali che stavo tenendo a Pisa, a cui assistevano avvocati e giovani laureati. Uno di questi intervenne per dire che ad un Master organizzato da una nota scuola di formazione italiana il docente aveva suggerito di indicare sempre e comunque la legge italiana. Dopo avermi ascoltato, tale suggerimento gli provocava dei dubbi. Per parte mia gli confermai che i suoi dubbi erano fondati….

A mio modo di vedere la convinzione, aprioristica e non verificata, che l’individuazione della legge italiana sia sempre la scelta migliore non è vera in quanto in alcune situazioni le soluzioni prospettate da un altro ordinamento giuridico potrebbero risultare addirittura più favorevoli o più efficaci per preservare gli interessi dell’impresa italiana, e mi vengono in mente due esempi, i contratti di agenzia e le Letter of Intent.

Prendiamo il caso di un contratto cui un preponente italiano nomini un agente in una qualche nazione il cui sistema giuridico si rifaccia alla tradizione del diritto anglo-sassone, chiedendo ed ottenendo che il contratto sia disciplinato dalla legge italiana e non già da quella della nazione ove l’agente risiede e svolge la sua attività in favore del preponente.

Così facendo non si terrebbe conto che, tradizionalmente, nei sistemi di common law, Regno Unito ovviamente escluso[1], tradizionalmente l’agent è considerato alla stregua di un mero mandatario (anche gli avvocati sono considerati agent ….) e la disciplina del rapporto tra il preponente e l’agente è rimessa all’autonomia delle parti. Conseguentemente, se non espressamente previsti dal contratto da esse sottoscritto, all’atto dello scioglimento del rapporto di agenzia nessuna indennità o particolare preavviso sono dovuti all’agente, il quale per contro, ove il contratto fosse sottoposto alla legge italiana potrebbe invece avvalersi delle disposizioni di maggior favore ivi previste. Ciò senza dimenticare che un simile approccio lo ritroviamo anche in altre nazioni non di common law al di fuori della Unione Europea (e.g. P.R.C.).

Un secondo esempio è quello delle Letter of Intent (o Memorandum of Understanding che dir si voglia, abbreviato in MOU per gli addetti ai lavori). Nella mia esperienza nella grande multinazionale italiana utilizzavamo un MOU quando si voleva avviare un colloquio esplorativo con un potenziale partner straniero per investigare una qualche ipotesi di collaborazione. Attenzione però, si trattava di un documento meramente esplorativo, redatto e sottoscritto quando non vi era alcuna certezza in merito alla praticabilità della collaborazione oggetto delle discussioni.

Lo scopo del documento, che si rifletteva nelle clausole del testo pressoché standardizzato che avevo predisposto, era esclusivamente quello di “organizzare” la negoziazione, senza assumere alcun “binding committment” in relazione alla ipotizzata, ed ipotetica, collaborazione, comunque espressamente prevedendo in una clausola ad hoc il diritto di ciascuna parte di interrompere la trattativa in merito alla ipotizzata collaborazione, senza incorrere in una qualche responsabilità[2] (la clausola si può leggere nel post che ho pubblicato in precedenza “ LETTERE DI INTENTI (HEAD OF TERMS, STATEMENT OF PRINCIPLES, MEMORANDUM OF UNDERSTANDING): LE DUE CLAUSOLE CHE NON DOBBIAMO MAI DIMENTICARCI DI INSERIRE“).

Avuto ben presente tale scopo normalmente la legge destinata a disciplinare il MOU era quella inglese e non quella italiana. I motivi erano due: il primo, peraltro del tutto secondario, era che così facendo offrivano al partner straniero una legge” neutrale” (o proprio la legge della sua nazione se la controparte era inglese…), dando prova di non soffrire di “imperialismo giuridico”.

Il secondo e vero motivo però era il diverso approccio all’interpretazione del contratto, interpretazione soggettiva e di buona fede nel diritto italiano, e interpretazione oggettiva, sulla base di quanto appare dalla lettera del contratto, senza che possano trovare applicazioni principi di buona fede e di ricerca della “comune intenzione delle parti”, che se avessimo invece applicato la legge italiana e quindi gli artt. 1362 e ss. Codice Civile , avrebbero potuto consentire alla controparte di contestare, magari del tutto strumentalmente, la nostra decisione di interrompere le trattative, e ciò a prescindere dalla clausola (“Letter of Intent only  / Non binding Letter of Intent) che avevamo pure inserito nel nostro MOU (si veda il post già pubblicato  “L’INTERPRETAZIONE DEL CONTRATTO NEI SISTEMI DI COMMON LAW E DI CIVIL LAW”).

Veniamo al virgolettato che ho inserito nel titolo di questo post.

Recentemente, girellando su internet (utilizzando come chiave di ricerca “contratti internazionali modelli”) mi sono imbattuto in un corposo documento dedicato ai principali contratti internazionali (“Documento”). Il Documento è di una decina di anni fa ma sempre disponibile per i potenziali fruitori, le imprese italiane per l’appunto, sul sito dell’Associazione (mediazione ed arbitrato) che lo ha predisposto, ove, in tema di legge applicabile ai contratti di distribuzione (ma lo stesso consiglio viene poi ripetuto per i contratti di compravendita) si legge “Si consiglia di scegliere la legge italiana, soluzione che appare nella maggior parte dei casi preferibile per il preponente italiano trattandosi di una normativa conosciuta e quindi più adatta alla gestione del rapporto e, nel caso in cui non si riesca ad evitarla, di una controversia. In nota si legge anche “Infatti, anche quando la legge italiana risulti più onerosa della legge del paese dell’agente (situazione che si verifica nei rapporti con agenti di paesi – soprattutto extraeuropei (si veda quanto sopra ho accennato alla situazione dei paesi di common law, Inghilterra esclusa) – che non prevedono alcun tipo di normativa a protezione dell’agente) è di regola preferibile sottoporre il rapporto ad una legge conosciuta, come appunto quella italiana, piuttosto che ad una legge di cui si debbano accertare di volta in volta i contenuti”.

Torniamo dunque il più possibile al diritto italiano. Il suggerimento espresso sopra, e le sue motivazioni mi lasciano, per dir così, estremamente dubbioso, in quanto:

(a) Mi lascia perplesso l’idea che il preponente italiano, o meglio i suoi amministratori e manager, si tratti di piccole, medie o grandi imprese conoscano e maneggino con sicurezza la normativa italiana. Chi ovviamente la conosce sono i consulenti legali dell’impresa;

(b) Altrettanta perplessità mi crea l’idea di eleggere la conoscenza della normativa italiana a criterio per la scelta della legge applicabile. Così facendo sembra quasi che si voglia giustificare la non conoscenza della normativa della nazione nel cui mercato l’impresa italiana intende vendere o distribuire i suoi prodotti, il che è un errore. Ciò in quanto la conoscenza del mercato e della normativa locale dovrebbe essere uno dei presupposti su cui un’impresa italiana costruisce il progetto di internazionalizzazione e di entrata un mercato straniero;

(c) Non necessariamente condivido l’enfasi posta sul collegamento tra la legge italiana ed una ipotetica controversia. Come ho sempre detto e scritto l’enfasi dovrebbe essere posta sulla prevenzione delle controversie (“prevenire è meglio che curare”) e quindi sull’analisi preventiva delle caratteristiche del nuovo mercato, normative locali incluse, e, successivamente, sul testo contrattuale. A ciò si aggiunga che, se il contratto è ben scritto, non necessariamente la legge italiana risulta la più efficace (e si veda il caso sopra descritto dei MOU).

(d)  Come ammesso nel testo virgolettato della nota del Documento sopracitata potrebbe accadere che la legge italiana sia meno favorevole di quella del paese della controparte ma anche in questo caso “è di regola preferibile sottoporre il rapporto ad una legge conosciuta (quella italiana) piuttosto che ad una legge di cui si debbano accertare di volta in volta i contenuti”. Mi immagino la scena, io che vado dal nostro Amministratore Delegato, anzi dal nostro Chief Executive Officer (per gli amici “CEO”): “Caro CEO al di fuori dell’Unione Europea utilizziamo la legge italiana per disciplinare gli agreements con gli agenti locali. E’ vero al termine del rapporto contrattuale dovremo pagare ad ognuno di loro una indennità pari ad un anno di provvigioni calcolate sul pregresso e un preavviso di sei mesi, ma informarsi sulle normative locali eventualmente più vantaggiose, che non prevedano simili indennità e termini di preavviso, è troppo complicato, già ci tocca scrivere il contratto in inglese, si immagini, cosa vuole che sia per la nostra società un’indennità pari ad un anno di provvigioni”. Caro lettore se avessi fatto questo discorso al mio CEO, secondo te dove mi mandava?

A mio modo di vedere in realtà non è possibile identificare una “legge applicabile” comunque a tutte le tipologie di contratti internazionali e in tutti i mercati stranieri.

Quando un’impresa italiana intende avviare su base continuativa una qualche attività su un nuovo mercato estero coinvolgendo un partner locale è comunque necessario predisporre una preventiva analisi di fattibilità che “fotografi” il mercato, inclusa una analisi della normativa locale che potrebbe avere un impatto sul progetto di internazionalizzazione che l’impresa italiana intende avviare.

Così facendo si possono identificare eventuali norme di applicazione necessaria locali, che troverebbero comunque applicazione anche nell’eventualità che il contratto sia formalmente disciplinato dalla legge italiana e comunque valutare quale sia la legge che più favorisce la profittabilità del progetto, senza poi dimenticare che bisogna poi condividere la scelta con il potenziale partner locale ……

“Last but not least” è poi utile ricordare la scelta della legge applicabile al contratto deve essere sempre coordinata con quella del foro competente a decidere su eventuali controversie e che la scelta del foro competente (e quindi anche della legge applicabile) dovrebbe essere fatta anche, valutando, sulla base del tipo contrattuale, quale dei due contraenti abbia maggior probabilità di avviare una causa contro l’altro.

[1] Al pari di quanto fatto dagli altri membri dell’Unione Europa, il Regno Unito, con l’emanazione delle Commercial Agents Regulations 1993 e 1995 ha recepito la Direttiva 86/653 CEE relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti. Resta da vedere cosa succederà con la Brexit ……

[2] In realtà a volte la sottoscrizione di un MOU aveva anche una finalità meramente “interna” all’uno o ad entrambi i contraenti, ovverosia quello di dimostrare all’Amministratore Delegato o al Consiglio di Amministrazione che i manager commerciali si muovevano alacremente per cogliere le opportunità di sviluppo internazionale, tanto che tra noi legali, scherzando, ma non troppo, si era soliti dire che “Un MOU non si nega a nessuno …..”.

Marco Bianchi© Riproduzione riservata – Settembre 2018

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